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venerdì 31 maggio 2013

SHOCK - MY ABSTRACTION OF DEATH

SHOCK - MY ABSTRACTION OF DEATH
Anno: 2013
Genere: drammatico, horror
Durata: 86'

Voto:
Segmento "Betwwen us: 5,5
Segmento: "Chromofobia: 7,5

Recensione: 
Quando un produttore serio si accorgerà della poetica di Domiziano Cristopharo? Non che ci voglia particolare accortezza tanto è icastica la potenza espressiva di questo artista romano che vanta in curriculum già un buon numero di pellicole
concentrate in un lasso di tempo di pochi anni. Complicato incasellarlo in un'accezione univoca ed esaustiva: performer, regista, poco conta in fondo laddove il raziocinio interpretativo soggiace al godimento di opere in cui la morte pare rifuggire la tradizionale falce del tristo mietitore per danzare su corpi e anime umane con lasciva sensualità.
«Shock – my abstraction of death» ha vissuto una lunga gestazione: concepito e girato nel 2010, viene alla luce solo nella primavera 2013. Cristopharo non abdica in questo caso alla sua personale originalità e si congiunge al giovane regista Alessandro Redaelli, il quale arriva al primo appuntamento con un minutaggio ragguardevole dopo alcuni cortometraggi. Lo stesso Redaelli si occupa del primo episodio dal titolo «Between us», Cristopharo del secondo «Chromofobia». Ambedue, quantunque assai differente nel sapore e nella struttura, si solleticano annusando lo stesso humus, «astrazione della morte», «shock», le modalità con cui i due protagonisti si figurano il trapasso da questa terra e le visioni che ne conseguono.
«Between us» dimostra alcuni numeri di Redaelli, ma altrettanto lamenta necessità di crescita sotto diversi punti di vista. Laddove si assiste alla buona e spontanea prova attoriale di Yuri (Nicolò Pessi), le stesse good news non provengono da una sceneggiatura che cattura a compartimenti stagni, un doppiaggio piatto e monocorde e poca sapidità generale. Redaelli invece denota perspicacia nella scena al buio in casa e in alcuni guizzi della macchina da presa. Invero non un episodio di basso livello, ma a cui manca polso autoriale, marcia e carattere; il che lo rende appena discreto e lascia l'amaro in bocca poiché si ha l'impressione che qualche capacità non sia stata ben calibrata né valorizzata.
La musica cambia radicalmente con «Chromofobia», in cui Cristopharo offre ancora una volta il fiore all'occhiello della sua virilità artistica, cioè l'imperlare storia, pellicola e personaggi di bizzarro, bislacco e misterioso appeal. Qualità che esplode letteralmente dallo schermo e che delizia ancora una volta i suoi conoscitori, i quali avevano già assaporato tale aspetto in lavori come «The museum of wonders» (dipinto in cui sacro e profano, normale e anormale, reale e finzione si abbracciavano in ideali ed eterei fiori d'arancio) e «Redkrokodil» (anedonica marcia funebre verso la patologia corporea e mentale). Il director si equilibra con disinvoltura fra carne e spirito, materia e anima, e, declinazione squisita del discorso, riesce a sentirsi a suo agio, a mettere a proprio agio lo spettatore rimanendo credibile in entrambi gli emisferi.
E così vola in alto la sua attenzione per i primi piani i quali, sorretti dal ancora una volta dal groove ipnotico e suadente di Alexander Cimini, si pongono come aghi della bilancia fra diversi luoghi/non luoghi, forse spazi esistenti forse non esistenti, forse solo pensati o appartenenti a dimensioni sconosciute dall'umano cervello. Come intendere se no la protagonista Celeste (Nancy De Lucia), il cui volto, talvolta ispessito da occhiali fuori moda. Celeste vomita addosso al fidanzato Marco (Yuri Antonosante) traballante fragilità, tremebondo disappunto, dubbi amletici rispetto alla spiritualità malsana di quella casa di vacanza. Ove sta il vero? Nei farmaci per sedare la mente che Caleste assume o nell'effettivo potere malvagio dello stabile? Cristopharo rende luminosi i suoi due attori: ha il merito e la dignità di non togliere i vestiti alla De Lucia, ne valorizza il volto dolce ma tormentato (bellissima quell'inquadratura dal basso alla ricerca della perdita di acqua) e mostra la valenza espressiva di Antonosante (ottimo volto tra il bello e il misterioso) condendolo di luminosità seventies.
E poi le locations abruzzesi, protagoniste aggiunte che dosano ancora meglio quel senso di paura mista a dubbio di cui la pellicola è imbevuta. Proprio là, in quel «non luogo» in cui nessuno pare abitare, proprio là si consuma lo struggimento di una giovane in presa a fantasie di morte. Ed ecco in ultima analisi la «sensuale morte» di Cristopharo; la morte, perenne protagonista implicita e fluttuante dei suoi lavori, anche in questo caso fa mostra di sé in modo orrido ma anche delicato e attraente nei panni di questa giovane. E che dire del gusto con cui il regista delinea la scena finale, quasi una ricerca di geni virtuosi anche laddove non parrebbe, quasi una riabilitazione del decesso non come panacea di tutti i mali ma come armonica fase di passaggio naturale da accettare.
Cristopharo sceglie «il lato oscuro della luna», non parteggia per il gruppo forte, predilige l'individuo e lo mostra in tutto quello che è ed ha.
Lo fa con la disabilità, la malattia, la debolezza della mente.
Gli vanno riconosciuti nerbo e grandezza.