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mercoledì 18 settembre 2013

FRANCESCA ANTONELLI: INTERVISTA

Francesca Antonelli: un nome di ampio richiamo per il cinema italiano, un'attrice per cui feeling ed empatia con il personaggio dominano su modelli pre impostati. Vederla all'opera per lo spettatore è rivivere, risentire la vibra, il calore e il colore di quello che vede in televisione direttamente a casa sua e sulla sua pelle. Questo al di là del registro del film, dramma o commedia che sia; sì, perché Francesca di collaborazioni importanti ne vanta molte: Francesca Archibugi, Marco Ferreri, Mimmo Calopresti, Nanni Moretti, Vincenzo Salemme, Federico Moccia. Questi sono solo alcuni dei registi cui ha prestato i suoi servigi, dividendosi anche tra televisione, teatro e pubblicità. Francesca, romanissima ed entusiasta, si è posta con
grande generosità ai nostri microfoni raccontandosi e raccontando aneddoti dal set in questo report del blog da leggere tutto d'un fiato. Se ancora avete dei dubbi su chi possa essere, non vi dice niente il suo ruolo di Stefania ne «I ragazzi del muretto», arci popolare serie tv andata in onda su Rai 2 negli anni '90?

Non ho visto tutti i tuoi lavori ma credo in numero sufficiente per farmi un'idea in proposito: mi sembri un'attrice che cerca di portare quello che è nella vita anche nei personaggi. E' la spontaneità e il realismo quello che distingue la tua recitazione. Sei d'accordo?
Sì, affronto i personaggi con passione e nella vita di solito mi succede qualcosa che mi avvicina a loro. L'impostazione è quella che mi diede la Archibugi; mi disse che dovevo piangere per quello che stavo vivendo in quel preciso momento e non pensando a qualcosa che mi era accaduto a casa. Ho portato nel cuore e nella professione questo insegnamento; una parte la vivo, non la recito, mi viene in modo del tutto naturale. Nel film che sto girando adesso «Arance e martello» del regista Diego Bianchi, Zoro, devo fare una pesciarola; ho deciso prima della riprese di stare per un mese al banco del pesce da un amico per assorbire al massimo quegli umori per poi cercare di portarli sul set.

Ti sei equilibrata nella carriera fra film e opere televisive più easy e alla portata del grande pubblico e altre interessate a scardinare la realtà. Ti ricordo ad esempio in «L'ultimo ultras» e «La seconda volta; che differenze ravvisi in questi due registri?
Ogni personaggio ha uno spessore e una vita e ogni ruolo l'ho amato. Non mi interessa né il blasone del regista né il genere, la regola è di vivere sulla pelle le cose senza filtri particolari. Certi personaggi sono più impegnativi, ci devi credere più che puoi per convincere gli altri. Di solito nel film leggere si crea un clima più rilassato, anche perché si tratta di argomenti e toni più abbordabili. Nel dramma non puoi, anzi devi fare tuoi angolazioni della vita che possono disturbarti, perfino ferirti. In entrambi i casi cerco di essere ricettiva, una creta morbida che si modella. L'interazione è fondamentale, entrare con tutti i colleghi nel massimo del legame, concentrarti, non essere viziati da pregiudizi e senza troppe prove a casa.

Vorrei soffermarmi sul rapporto che in questi due episodi hai intessuto da una parte con Stefano Calvagna e dall'altra con Nanni Moretti. Cosa ricordi di loro? A loro modo si dice non siano registi «facili».
Mimmo Calopresti, il regista de «La seconda volta», mi aveva chiamato anni prima per un corto sulla droga; quando le persone le conosci in un'etàcosì giovane, il rapporto successivo ne risente e in questo caso in maniera positiva. Mi ricordo di quel film il carcere «Le vallette», entrarci fu un'emozione che ti attraversa e che non dimenticherò mai più, soprattutto per l'età che avevo. Moretti? E' un «antipatico simpatico»; sembra voglia mettere un deserto nucleare tra lui e il resto del mondo, al contempo è curioso e questo lo salva, anche in ragione di un talento straordinario e un intelletto vispo. Questa proprio te la devo raccontare: avevo 18 anni allora e mi fece mettere i piedi incrociati; io pensavo chissà cosa, che fosse inerente al film, invece mi lasciò in quella posizione per poi andarsene. Calvagna è molto simpatico, caciarone e umanamente mi fa ridere; come regista trovo abbia del talento, anche il modo in cui gira lo apprezzo. Poi però non siamo più a collaborare per motivazioni che preferisco non rivelare; lui dovrebbe riconoscere che non può svolgere tutti i ruoli insieme, è troppo dispersivo e ingestibile! Scrittore del soggetto e della sceneggiatura, regista, attore, perfino produttore; forse solo Woody Allen potrebbe farcela. Con Calvagna avevo fatto una piccolissima parte ne «Il peso nell'aria».

Un altro film cui hai partecipato e che mi ha colpito per la sua delicatezza che si armonizza con dramma e ironia è «Questione di cuore» con due grandi attori come Kim Rossi Stuart e Antonio Albanese. Che ricordo hai in questo caso?
Non era un ruolo importante, mi chiamò l'Archibugi. Posso rivelarti che Rossi Stuart, nella scena della sua morte, ha fatto piangere tutta la troupe e, lasciamelo dire, quando riesci a far piangere le maestranze, non puoi che essere meravigliosamente bravo. Albanese l'ho visto un giorno solo: si è dimostrato anche come persona un mattatore capace di qualsiasi interpretazione.

Virando in ambito televisivo, ritengo la fiction di Rino Gaetano una delle migliori che io abbia mai visto; il rapporto con Claudio Santamaria e il regista Marco Turco?
Turco è molto serio e impenetrabile, molto attento e con una storia personale alle spalle importante. Ho avuto un buon rapporto con tutti loro e credo che Santamaria sia stato immenso, pensa che sentivo la forza con cui stata interpretando il personaggio. Ricordo la sua motivazione, lo sguardo, ogni sua parola pareva misurata per non uscire dal ruolo. Lì facevo un'amica che stava nella compagna di Rino Gaetano; mi ritengo fortunata per questa esperienza, pur non avendola vissuta con lo stesso coinvolgimento emotivo di altre. 

E' sempre antipatico privilegiare o criticare questo o quello. Ma quali sono i parametri per cui, per la tua sensibilità artistica e umana, un regista ti risulta particolarmente apprezzato o antipatico?
La prima impressione può essere sbagliata, questo l'ho imparato sulla mia pelle. Per esempio Bianchi al provino mi sembrava il classico romano, mi diede informazioni un po' approssimative; invece sul set non solo è riuscito a creare un ambiente fantastico e positivo, ma ha dimostrato creatività e ironia davvero ottime. Moccia è dolce e a volte geniale; con Giacomo Campiotti invece mi sono trovata male, sono una persona che ha necessità di comunicare e in lui non ho trovato attenzione per l'aspetto umano. A volte anche senza le parole si può dialogare, per capire bene un progetto devo ricevere qualcosa. I muri mi spaventano anche nella vita privata! Ho lavorato anche con Marco Ferreri, che mi ha prima maltrattato ma anche poi insegnato moltissimo. Non ho fatto provini con lui, mi scelse solo guardandomi; sul set mi gridò: «Non stare lì a fare la cacca moscia!». E poi, camminando, continuava a dire «Moscia, mosciarella», ora ci rido ma allora ci rimasi malissimo e oggi lo ringrazio. A me non piacciono gli stronzi gratuiti; uno può anche essere stronzo, ma magari mi insegna.

Mi sono spesso chiesto come fa un attore su un set, quando proprio non riesce a ingranare con il resto del cast ed è obbligato a lavorarci insieme per un tot di giorni, a mantenere professionalità e performance.
Le cose negative hanno sempre un lato positivo! Tu ti devi concentrare sul personaggio e chiuderti lì dentro per proteggerlo. Mi metto a pensare che in quel caso il personaggio necessitava di più concentrazione. Non bisogna ingranare per forza comunque, sono contro le forzature. Il vero incubo è quando un regista non ti apprezza; a me non è mai successo per fortuna.

Hai prestato i tuoi servigi anche a «Scusa ma ti chiamo amore» e «Scusa ma ti voglio sposare». Non è un mistero che questi e molto della filmografia di Federico Moccia siano declassati da molti sedicenti esperti di cinema e da parte del pubblico. Perché a tuo avviso se ne parla così male da più parti?
Gli incassi sono incredibili però, non dimentichiamolo mai. Il cinema ha doveri educativi che vanno rispettati; alcuni momenti di quelle pellicole non sono piaciuti neanche a me, ma alla fine Moccia ha trovato una chiave per ottenere successo. A parte che da solo Raoul Bova basta e avanza, ma poi un po' di leggerezza va sempre bene, ti fai due risate e a moltissimi ragazzi è piaciuto. Questo genere va preso per quello che è; nella commedia per forza devi stereotipare se no non si regge nemmeno la sceneggiatura. Io lo chiamo «Super Pippo» Moccia.

Non troverai in me il classico critico che sputa sentenze sul cinema italiano odierno e rammenta la qualità soltanto dei nostri grandi padri. Penso invece che escano buonissimi film, lucenti opere prime, soprattutto in ambito neo-neo realismo. Che ne pensi?
A me il filone che piace è questo; il neo-realismo è quello a cui ambisco a fare. Il primo amore non si scorda mai, faccio il tifo per questi registi che hanno tutta la mia stima per l'entusiasmo e a volte anche per la competenza. Il mio amico Valerio Mastandrea, che stimo tantissimo, ha fatto ora un film chiamato «La mia classe» sul tema dell'immigrazione e diretto da Daniele Gaglianone, che ha avuto l'intelligenza di fare un film nel film. Infatti i bambini stranieri coinvolti nelle riprese hanno avuto problemi con la burocrazia italiana e questo è stato inserito nel film stesso. Se non è realismo questo! Mi piace il fatto di indagare la realtà, amo anche il cinema del sogno, ma il mio film preferito di sempre è «C'era una volta in America», questo vorrò dire qualcosa. Amo ciò che va alla ricerca dell'animo umano.

L'Italia è un Paese strano: non solo nel cinema ma anche nella arti in genere e in molti campi professionali a volte il talento rimane confinato alla persona che ce l'ha e a un ristretto numero di persone. Perché in altre Nazioni si investe di più su chi ha davvero da dire? Siamo davvero il «Paese della barbe bianche»?
Secondo me è una questione di alchimia di questioni che funzionano insieme; il talento andrebbe valorizzato di più, certo, ma da che mondo e mondo è così. All'inizio non andavo a letto con nessuno né ero figlia di un politico, ma ero autentica e questo lo considero il mio vero talento. Fu una serie di coincidenze a farmi andare avanti e sono convinta che i predestinati a qualcosa prima o poi escano fuori. Un atteggiamento positivo e potente verso la vita poi fa la differenza, io sono il trionfo dell'ottimismo; questo ti serve quando la vita ti piega a momenti di dolore ma la positività aiuta a limitare questi momenti.

Apprezzo tante forme d'arte e ripongo nell'affermazione dell'arte uno dei pochi metodi per salvare le nostre anime in questi tempi bui. Ma non mi sono mai appassionato di teatro e anzi, da ignorante in materia, credo mi annoierei molto in quel contesto. Convincimi del contrario.
Io nel teatro ho fatto poco, ma so che c'è un altro genere di emozione; la scena nel cinema la ripeti più volte, sul palco hai sensazioni diverse ad ogni spettacolo, c'è un'altra ricerca, non è una scienza esatta, ci sono altri tempi. A teatro vado ancora meno che al cinema, ma alcuni spettacoli ti mandano in estasi, l'attore ce l'hai davanti e ti porta davanti il tuo bagaglio. Sono certa che, se andassi oggi a teatro scegliendo magari lo spettacolo giusto, te ne innamoreresti. Provaci!

Cosa bolle in pentola il casa Antonelli in questo periodo?
A parte «Arance e martello», all'orizzonte c'è il film di Giovanni Veronesi «L'ultima ruota del carro»; faccio la madre di Alessandra Mastronardi e come protagonista troviamo Elio Germano. Al trucco per il mio invecchiamento ha lavorato Manlio Rocchetti, premio Oscar. E' una produzione coraggiosa, di ampio respiro, che lascerà il segno e che attraversa 30 anni di storia italiana. Giovanni poi è bravissimo, porta gli attori per mano.

Si ringrazia l'attore e amico Emanuel Bevilacqua