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domenica 2 giugno 2013

IL RAGAZZO DI CAMPAGNA

La seguente non è una vera recensione, ma la trasmissione di sensazioni a pelle dopo l'ennesima visione di questo cult anni '80.
Perdonate il recensore, apprezzate l'uomo.

Chi mi conosce sa che da anni propugno un'attitudine al cinema molto precisa: film autoriali, meglio se non necessariamente americani, zero effettistica speciale, ricerca delle emozioni e del confronto individuo/società. Ma vi è un filone che, nel o nel male, ha condizionato la mia vita e quella di molti di noi, un filone davanti al quale mi tiro giù le braghe e provo ammirazione,
rispetto e affetto in quanto facente parte del mio background culturale.
Questo tanto per dire che certa commedia italiana dei bei tempi non solo è ambito che fa riemergere ricordi stupendi di un tempo ahimé smarrito, ma che ancora oggi mi fa tornare la voglia di divertirmi. Certo l'"illusione" del passato è terminata, così come è terminato il fatto che il sottoscritto, a 7-15 anni, si beveva ogni cosa che gli veniva detta. E così capitava di vedere film come Il ragazzo di campagna (o Yuppies, Vacanze in America, Gran hotel Excelsior, I grandi magazzini, Le comiche, Rimini Rimini e, anche in quest'ultimo caso siamo in un altro pianeta, Fantozzi) insieme a mio padre e ridere a crepapelle, impararsi le battute a memoria e credere che in fondo il mondo non fosse così brutto come dicevano i telegiornali.
C'era poi il filone della commedia sexy, che adoravo forse ancora di più, che mi affascinava, che mi eccitava, che trovavo magico; in quel caso siamo su un altro piano, ma sempre attinente a quella deliberata voglia di ridere, di non pensare, di "borotalco" (per citare uno dei capisaldi di Verdone molto ma molto intriso di sapori anni '80), di evanescenza, di leggerezza di cui ci sarebbe tanto bisogno in tempi come questi. Quell'ingenuo tentativo di lasciarsi stupire anche dalle futilità, di arrendersi all'ossessione delle battute pecorecce e reiterate (non la ripetititività triviale e inutile di Zelig), di mettere in piazza l'umiltà di stare dalla parte degli ultimi, di prendere per il culo quello con il panfilo e non si desiderarlo a tutti i costi.
Erano i mitici anni '80, ero piccolino ma me li ricordo molto bene; ricordo quei magnifici martedì sera davanti a Italia 1 quando non mi perdevo per niente al mondo una puntata di Drive-in e il mondo mi sembrava magico. Mi ritagliavo anzi un mondo parallelo, diverso dai miei genitori, che erano i "vecchi"; il sangue nuovo per me erano questi film, il wrestling, la Juventus, Drive-in appunto e i primi appetiti sensuali di cose come "Colpo grosso" e "Valentina". E, aspetto rilevante, questo mondo era credibile tanto quanto quello "istituzionale" dei miei genitori. Per fortuna nel tempo questa prelibata aggiunta all'esistenza "ufficiale" l'ho perpetuato con tanti altri interessi che mi hanno accompagnato e mi stanno accompagnando nel cammino arricchente della vita. Ho sempre cercato del resto di non uccidere mai quella spinta di evasione, anche di "eversione" a volte, quell'anelito a non accettare delle regole imposte dall'alto, ma a "sfogarmi" appunto in quell'universo autopoietico e così piacevole, rassicurante, tutto mio, in cui mi sentivo e mi sento invincibile.
In tal senso non vedrei modo migliore di intendere l'arte.
Raccomando dunque ognuno a non "uccidere se stesso per vivere", a coltivare sempre con raziocinio e passione quei contesti che non si configurano come mere valvole di sfogo, bensì come campi in fiore che donano il luccichìo della bellezza, del sale esistenziale.
In sostanza vale la pena di vivere per personalizzare il più possibile la nostra permanenza in questo mondo e il modo migliore per farlo è non lasciare sfuggire quel fanciullesco istinto che in fondo ci fa sentire sempre un po' bambini, immaturi, fragili, creativi... Vivi.
Ecco allora i ricordi, schegge mnestiche la cui incidenza, per quanto scolorita dalla schiavitù dello scorrere dei giorni, si fa sentire ancora oggi. Tuffiamoci in quelle memorie, facciamoci ancora sedurre, onoriamole, baciamole alla francese, facciamoci l'amore come atto di rispetto a noi stessi e alla fortuna che ci è toccata nel viverli.
Un po' come chi afferma che rileggere è meglio che leggere; riviviamo, forse è più dolce rimembrare che vivere in senso proprio.
Ed ecco allora che film come "Il ragazzo di campagna" riaffiorano talvolta nel mio immaginario e vanno ben al di là dell'intrinseco valore artistico, che può essere più o meno elevato a seconda di come li si intenda. Poco mi importa oggi di questo; mi importa l'ennesimo pretesto che lo stesso mi ha concesso di viaggiare nuovamente in quella umile casa in cui vivevo a metà degli anni '80, stretto dall'abbraccio dei miei genitori, un po' impaurito della vita ma al sicuro anche grazie e Pozzetto.