La seguente non è una vera recensione, ma la trasmissione di sensazioni a pelle dopo l'ennesima visione di questo cult anni '80.
Perdonate il recensore, apprezzate l'uomo.
Chi mi conosce sa che da anni propugno un'attitudine al cinema molto precisa: film autoriali, meglio se non necessariamente americani, zero effettistica speciale, ricerca delle emozioni e del confronto individuo/società. Ma vi è un filone che, nel o nel male, ha condizionato la mia vita e quella di molti di noi, un filone davanti al quale mi tiro giù le braghe e provo ammirazione,
Perdonate il recensore, apprezzate l'uomo.
Chi mi conosce sa che da anni propugno un'attitudine al cinema molto precisa: film autoriali, meglio se non necessariamente americani, zero effettistica speciale, ricerca delle emozioni e del confronto individuo/società. Ma vi è un filone che, nel o nel male, ha condizionato la mia vita e quella di molti di noi, un filone davanti al quale mi tiro giù le braghe e provo ammirazione,
rispetto e affetto in
quanto facente parte del mio background culturale.
Questo tanto per
dire che certa commedia italiana dei bei tempi non solo è ambito che fa
riemergere ricordi stupendi di un tempo ahimé smarrito, ma che ancora
oggi mi fa tornare la voglia di divertirmi. Certo l'"illusione" del
passato è terminata, così come è terminato il fatto che il sottoscritto,
a 7-15 anni, si beveva ogni cosa che gli veniva detta. E così capitava
di vedere film come Il ragazzo di campagna (o Yuppies, Vacanze in America, Gran hotel Excelsior, I grandi magazzini, Le comiche, Rimini Rimini e, anche
in quest'ultimo caso siamo in un altro pianeta, Fantozzi) insieme a mio
padre e ridere a crepapelle, impararsi le battute a memoria e credere
che in fondo il mondo non fosse così brutto come dicevano i
telegiornali.
C'era poi il filone della commedia sexy, che adoravo
forse ancora di più, che mi affascinava, che mi eccitava, che trovavo
magico; in quel caso siamo su un altro piano, ma sempre attinente a
quella deliberata voglia di ridere, di non pensare, di "borotalco" (per
citare uno dei capisaldi di Verdone molto ma molto intriso di sapori
anni '80), di evanescenza, di leggerezza di cui ci sarebbe tanto bisogno
in tempi come questi. Quell'ingenuo tentativo di lasciarsi stupire
anche dalle futilità, di arrendersi all'ossessione delle battute
pecorecce e reiterate (non la ripetititività triviale e inutile di
Zelig), di mettere in piazza l'umiltà di stare dalla parte degli ultimi,
di prendere per il culo quello con il panfilo e non si desiderarlo a
tutti i costi.
Erano i mitici anni '80, ero piccolino ma me li
ricordo molto bene; ricordo quei magnifici martedì sera davanti a Italia
1 quando non mi perdevo per niente al mondo una puntata di Drive-in e
il mondo mi sembrava magico. Mi ritagliavo anzi un mondo parallelo,
diverso dai miei genitori, che erano i "vecchi"; il sangue nuovo per me
erano questi film, il wrestling, la Juventus, Drive-in appunto e i primi
appetiti sensuali di cose come "Colpo grosso" e "Valentina". E, aspetto
rilevante, questo mondo era credibile tanto quanto quello
"istituzionale" dei miei genitori. Per fortuna nel tempo questa
prelibata aggiunta all'esistenza "ufficiale" l'ho perpetuato con tanti
altri interessi che mi hanno accompagnato e mi stanno accompagnando nel
cammino arricchente della vita. Ho sempre cercato del resto di non
uccidere mai quella spinta di evasione, anche di "eversione" a volte,
quell'anelito a non accettare delle regole imposte dall'alto, ma a
"sfogarmi" appunto in quell'universo autopoietico e così piacevole,
rassicurante, tutto mio, in cui mi sentivo e mi sento invincibile.
In tal senso non vedrei modo migliore di intendere l'arte.
Raccomando
dunque ognuno a non "uccidere se stesso per vivere", a coltivare sempre
con raziocinio e passione quei contesti che non si configurano come
mere valvole di sfogo, bensì come campi in fiore che donano il luccichìo
della bellezza, del sale esistenziale.
In sostanza vale la pena di
vivere per personalizzare il più possibile la nostra permanenza in
questo mondo e il modo migliore per farlo è non lasciare sfuggire quel
fanciullesco istinto che in fondo ci fa sentire sempre un po' bambini,
immaturi, fragili, creativi... Vivi.
Ecco allora i ricordi, schegge
mnestiche la cui incidenza, per quanto scolorita dalla schiavitù dello
scorrere dei giorni, si fa sentire ancora oggi. Tuffiamoci in quelle
memorie, facciamoci ancora sedurre, onoriamole, baciamole alla francese,
facciamoci l'amore come atto di rispetto a noi stessi e alla fortuna
che ci è toccata nel viverli.
Un po' come chi afferma che rileggere è meglio che leggere; riviviamo, forse è più dolce rimembrare che vivere in senso proprio.
Ed
ecco allora che film come "Il ragazzo di campagna" riaffiorano talvolta
nel mio immaginario e vanno ben al di là dell'intrinseco valore
artistico, che può essere più o meno elevato a seconda di come li si
intenda. Poco mi importa oggi di questo; mi importa l'ennesimo pretesto
che lo stesso mi ha concesso di viaggiare nuovamente in quella umile
casa in cui vivevo a metà degli anni '80, stretto dall'abbraccio dei
miei genitori, un po' impaurito della vita ma al sicuro anche grazie e
Pozzetto.