THE MUSEUM OF WONDERS
Regia: Domiziano Cristopharo
Anno: 2011
Genere: drammatico
Durata: 98'
Voto: 8
Voto: 8
Trama:
Marcel (Fabiano
Lioi) gestisce un locale alternativo ed eccentrico in cui le persone
hanno la possibilità di vedere scherzi della natura e performers. Il
boss si innamora della graziosa prestigiatrice Salomè (Valentina
Mio), la quale però, pur fingendo di cedere alle sue avances, è già
legata al forzuto Sansone (Francesco Venditti). La ragazza vorrebbe
impadronirsi della luculliana
eredità lasciata dalla nonna di Marcel (Maria Grazia Cucinotta).
eredità lasciata dalla nonna di Marcel (Maria Grazia Cucinotta).
Recensione:
Un luogo senza
coordinate spazio-temporali, che però sarebbe delittuoso intendere
come «non luogo». Sì, perché il milieu delineato dal regista
romano Domiziano Cristopharo, in questo caso alla seconda occasione
dietro la macchina da presa, pare dipinto da un pennello imbevuto di
colori fiabeschi, grotteschi e insaporiti da gusto, sapienza e
fantasia.
L'opera andrebbe
assaporata anche sprovvista della sceneggiatura; un trip talora
allucinato tal'altra attraente che non può non polarizzare la piena
attenzione di coloro che vivono sulla propria pelle estremismo,
sottocultura (sia detto in senso assolutamente buono), underground.
Non solo: questo «museo delle meraviglie» si affranca, grazie alla
mano del suo «direttore», da un'insidiosa e probabile chiusura a
riccio per essere potenzialmente apprezzata da un pubblico più ampio. Ci vuole
infatti fegato a non esaltare le proiezioni lisergiche di
Cristopharo, la fluidità delle inquadrature, una spiccata capacità
di cogliere il particolare, la «stranezza» che si respira dal primo
all'ultimo fotogramma. Certe scene sono da elevare indiscutibilmente,
così come l'efficiente efficacia delle scenografie che, aprendosi in
spazi piccoli ma mai angusti, denotano lo sforzo ben ripagato della
camera di valorizzare numerose sottigliezze.
Un intento
squisitamente estetico quello del cineasta romano, che punta più
sulla forma che sul lirismo puro, che si compiace del proprio talento
senza mai risultare tracotante, che incede con il fiato dei grandi
risultati. Un'esperienza per gli occhi dunque prima di tutto, che ha
radunato varie persone affette da menomazioni fisiche, con tatuaggi,
piercing, scarnificazioni.
Il loro aspetto,
in alcuni casi cercato in altri imposto dalla natura (splendidamente
crudele la battuta di Venditti all'inizio sulla non generosità della madre «natura» riferito a Marcel, dotato di nanismo), si erge
a strumento per raccontare qualcosa in più. E dunque la sceneggiatura,
invero non troppo declinata, non invadente, quasi timida nel non
voler sovrastare un piglio iconografico di cui ha rispetto e un poco
anche deferenza. «The museum of wonders» così raccoglie la fulgida
eredità di «Freaks» di Browning per attualizzarla senza produrre
un'anodina fotocopia. E la riattualizza passando per Greenaway, certo
Fellini e, perchè no, anche sua maestà Jodorowski, per umanizzare
questi «manichini di carne» (parafrasando il primo film del
regista) e sottolineare che in fondo anche loro sono mossi dagli
stessi processi mentali ed emotivi del così detti normali.
Dunque si cerca
di attenuare l'idiosincrasia fra normalità e anormalità;
idiosincrasia solo apparente e comunque ipocrita, poiché i non
freaks sono attratti dai freaks, li guardano con repulsione ma li
guardano eccome, fottuti voyeur alcuni dei quali sublimano loro
stessi handicap o lati oscuri nella visione pruriginosa di chi sta
peggio. Eccezionale in tal senso la scena del cliente senza una falange con la telecamera che scende lemme lemme per poi sondare con
il medesimo climax gli altri due performers che stavano parlando di
lui.
Ancora:
l'asseverare che nei «dipendenti» del museo, li si chiami senza
pudore e remora artisti (perché in taluni casi di arte trattasi),
alberghi un'anima, implica non limitarsi a sciorinare cinicamente una
corte dei miracoli da spettacolizzare, bensì rovesciare con
intelligenza e disponibilità sentimentale il rapporto freak-normale
senza che né in uno né nell'altro gruppo si debba far emergere
vincitori o vinti.
Christopharo
dimostra un'autentica ossessione per il corpo, tematica che esplode
letteralmente anche nell'ultimo lavoro «Red krokodil», divergente
per mille motivi da questo, ma in cui l'esposizione della «carne»
pudenda comprese diventa sostanza artistica e concettuale. In «Museum
of wonders», che a buon diritto è lecito considerare quadro colto
ed ambizioso, lo stesso corpo si fa protagonista aggiunto facendo
parlare anche i silenzi, donando eloquenza a un'immagine scolpita
sulla pelle, parlando una lingua silente ma più espressiva e
acuminata di pachidermici discorsi. E allora la comunicazione che ne
deriva è circolare, corale, assai profonda e nutriente e le frasi
più impostate sentenziano concetti che si ha piacere a riascoltare.
Cristopharo ha
radunato sul set anche ospiti e amici tra cui volti molto noti
dell'universo recitazione e spettacolo come Maria Grazia Cucinotta,
Giampiero Ingrassia, Maria Rosaria Omaggio, Yvonne Sciò, VenantinoVenantini e perfino il grande Ruggero Deodato.
Da sottolineare
una fotografia ancora una volta perfetta e capace di accentuare
drammaturgicamente i tenori di vari istanti e musiche molto brillanti
che pescano a piene mani dall'opera.
La scena più
bella? Quell'edificio a forma di torre circolare e con vari disegni
di writers che Cristopharo si permette il lusso di trasformare in
teatro di rincorse fra due istrionici attori vestiti in modo
eccentrico sulle note di arie anni '30. Grande cinema.