SHOCK - MY ABSTRACTION OF DEATH
Anno: 2013
Genere: drammatico, horror
Durata: 86'
Voto:
Segmento "Betwwen us: 5,5
Segmento: "Chromofobia: 7,5
Recensione:
Quando un produttore serio si accorgerà
della poetica di Domiziano Cristopharo? Non che ci voglia particolare
accortezza tanto è icastica la potenza espressiva di questo artista
romano che vanta in curriculum già un buon numero di pellicole
concentrate in un lasso di tempo di pochi anni. Complicato incasellarlo in un'accezione univoca ed esaustiva: performer, regista, poco conta in fondo laddove il raziocinio interpretativo soggiace al godimento di opere in cui la morte pare rifuggire la tradizionale falce del tristo mietitore per danzare su corpi e anime umane con lasciva sensualità.
concentrate in un lasso di tempo di pochi anni. Complicato incasellarlo in un'accezione univoca ed esaustiva: performer, regista, poco conta in fondo laddove il raziocinio interpretativo soggiace al godimento di opere in cui la morte pare rifuggire la tradizionale falce del tristo mietitore per danzare su corpi e anime umane con lasciva sensualità.
«Shock – my abstraction of death»
ha vissuto una lunga gestazione: concepito e girato nel 2010, viene
alla luce solo nella primavera 2013. Cristopharo non abdica in questo
caso alla sua personale originalità e si congiunge al giovane
regista Alessandro Redaelli, il quale arriva al primo appuntamento
con un minutaggio ragguardevole dopo alcuni cortometraggi. Lo stesso
Redaelli si occupa del primo episodio dal titolo «Between us»,
Cristopharo del secondo «Chromofobia». Ambedue, quantunque assai
differente nel sapore e nella struttura, si solleticano annusando lo
stesso humus, «astrazione della morte», «shock», le modalità con
cui i due protagonisti si figurano il trapasso da questa terra e le
visioni che ne conseguono.
«Between us» dimostra alcuni numeri
di Redaelli, ma altrettanto lamenta necessità di crescita sotto
diversi punti di vista. Laddove si assiste alla buona e spontanea
prova attoriale di Yuri (Nicolò Pessi), le stesse good news non
provengono da una sceneggiatura che cattura a compartimenti stagni,
un doppiaggio piatto e monocorde e poca sapidità generale. Redaelli
invece denota perspicacia nella scena al buio in casa e in alcuni
guizzi della macchina da presa. Invero non un episodio di basso
livello, ma a cui manca polso autoriale, marcia e carattere; il che
lo rende appena discreto e lascia l'amaro in bocca poiché si ha
l'impressione che qualche capacità non sia stata ben calibrata né
valorizzata.
La musica cambia radicalmente con
«Chromofobia», in cui Cristopharo offre ancora una volta il fiore
all'occhiello della sua virilità artistica, cioè l'imperlare
storia, pellicola e personaggi di bizzarro, bislacco e misterioso
appeal. Qualità che esplode letteralmente dallo schermo e che
delizia ancora una volta i suoi conoscitori, i quali avevano già
assaporato tale aspetto in lavori come «The museum of wonders»
(dipinto in cui sacro e profano, normale e anormale, reale e finzione
si abbracciavano in ideali ed eterei fiori d'arancio) e «Redkrokodil» (anedonica marcia funebre verso la patologia corporea e
mentale). Il director si equilibra con disinvoltura fra carne e
spirito, materia e anima, e, declinazione squisita del discorso,
riesce a sentirsi a suo agio, a mettere a proprio agio lo spettatore
rimanendo credibile in entrambi gli emisferi.
E così vola in alto la sua attenzione
per i primi piani i quali, sorretti dal ancora una volta dal groove
ipnotico e suadente di Alexander Cimini, si pongono come aghi della
bilancia fra diversi luoghi/non luoghi, forse spazi esistenti forse
non esistenti, forse solo pensati o appartenenti a dimensioni
sconosciute dall'umano cervello. Come intendere se no la protagonista
Celeste (Nancy De Lucia), il cui volto, talvolta ispessito da
occhiali fuori moda. Celeste vomita addosso al fidanzato Marco (Yuri Antonosante) traballante fragilità, tremebondo disappunto, dubbi
amletici rispetto alla spiritualità malsana di quella casa di
vacanza. Ove sta il vero? Nei farmaci per sedare la mente che Caleste
assume o nell'effettivo potere malvagio dello stabile? Cristopharo
rende luminosi i suoi due attori: ha il merito e la dignità di non
togliere i vestiti alla De Lucia, ne valorizza il volto dolce ma
tormentato (bellissima quell'inquadratura dal basso alla ricerca
della perdita di acqua) e mostra la valenza espressiva di Antonosante
(ottimo volto tra il bello e il misterioso) condendolo di luminosità
seventies.
E poi le locations abruzzesi,
protagoniste aggiunte che dosano ancora meglio quel senso di paura
mista a dubbio di cui la pellicola è imbevuta. Proprio là, in quel
«non luogo» in cui nessuno pare abitare, proprio là si consuma lo
struggimento di una giovane in presa a fantasie di morte. Ed ecco in
ultima analisi la «sensuale morte» di Cristopharo; la morte,
perenne protagonista implicita e fluttuante dei suoi lavori, anche in
questo caso fa mostra di sé in modo orrido ma anche delicato e
attraente nei panni di questa giovane. E che dire del gusto con cui
il regista delinea la scena finale, quasi una ricerca di geni
virtuosi anche laddove non parrebbe, quasi una riabilitazione del
decesso non come panacea di tutti i mali ma come armonica fase di
passaggio naturale da accettare.
Cristopharo sceglie «il lato oscuro
della luna», non parteggia per il gruppo forte, predilige
l'individuo e lo mostra in tutto quello che è ed ha.
Lo fa con la disabilità, la malattia,
la debolezza della mente.
Gli vanno riconosciuti nerbo e
grandezza.