Alex ha messo un chiavistello alla porta della sua stanza e per oltre
sei mesi ha chiuso il mondo fuori. Andrea da nove passa le sue notti su
Internet perché la vita vera, dice, è lì. Anna esce dalla camera solo di
notte per assaltare il frigorifero. Luca risponde esclusivamente a chi
lo chiama con il «nick» perché il suo nome gli suona vuoto come la sua
esistenza. Confondono il giorno con la notte, parlano
con gli
sconosciuti e sono sconosciuti in casa loro. Sono le esistenze
rovesciate degli hikikomori, i giovani autoreclusi, non più solo
giapponesi. Per conoscere le loro storie devi parlare con le
sentinelle impotenti del loro ritiro. Genitori, fratelli, amici: «Mio
figlio per oltre sei mesi mi ha parlato solo attraverso la porta e solo
per urlarmi "lasciami in pace"»; «Mia sorella esce quando tutti dormono:
mi ruba le sigarette dallo zaino e torna a rinchiudersi». Ma per
incontrarli non puoi che andarli a cercare nel loro regno: Internet.
Ecco Chaoszilla, dà un nome agli autoreclusi come lui: «Io sono un
hikikomori»; Pavély spiega cos' è, un hikikomori: «È una parola
giapponese. Indica il comportamento di quei ragazzi che per anni vivono
in casa, senza affrontare la vita e l' amore. Solo Internet e fumetti.
Cosa importante: io sono uno di loro»; Miki s' identifica, quindi
quantifica il fenomeno: «Ve lo dico: hikikomori è un traguardo, è la
frontiera. In Giappone sono circa un milione. In Italia siamo
mostruosamente indietro ma la necessità di isolarsi dall' orribile mondo
esterno vedo che si diffonde sempre di più». Su una cosa Miki e il
mondo fuori dalla sua stanza sono d' accordo: gli hikikomori, anche in
Italia, sono sempre di più. Non esistono statistiche sulla «lost
generation» nostrana. Solo le testimonianze di psicologi: oltre 50 i
casi che abbiamo registrato. E le storie (nascoste dietro nomi di
fantasia) di Alex: 16 anni e una vita in 20 mq scandita dal rombo degli
aerei di Malpensa; Andrea: un anno in più di Alex e una «cella» alle
porte di Brescia; Valentina: rinchiusa in un appartamento sull'
Adriatico; Luca: solo di recente uscito dal suo «guscio» in Gallura. Più
maschi che femmine. Quasi sempre «under 18», almeno in Italia. Molto
intelligenti, creativi, ma introversi. Letteralmente giovani «in
ritiro», ragazzi che senza un apparente motivo si chiudono nella loro
stanza. Chi (come Oblomov di Goncarov) per incapacità di affrontare il
mondo, chi (è il caso di Miki) per esprimere la sua rabbia. E ancora:
chi per mesi, chi per anni. Il record nostrano: tre-quattro anni. Quello
nipponico: 15 e più. Per alcuni la clausura è totale, per altri
parziale: qualcuno esce dalla propria stanza per cenare con i genitori,
per andare in vacanza, chi vive solo è obbligato a farlo per comprare
del cibo nel supermercato più vicino. In Giappone gli hikikomori sono
un fenomeno culturale e sociale: sono oltre un milione, l' 1% della
popolazione, il 2% degli adolescenti. Alcuni ricercatori, tra cui
Michael Zielenziger (suo il saggio Non voglio più vivere alla luce del
sole), hanno avanzato l' ipotesi che anche la principessa Masako Owada,
ne sia affetta. La colpa della loro autoreclusione è stata data alle
pressioni sociali, alla severità del sistema scolastico, alla spinta
verso l' omologazione, alle madri oppressive, ai padri assenti, al
bullismo. Tamaki Saito è stato il primo psicoterapeuta a studiare quello
che viene definito un disturbo («non una patologia»). Ma è stato anche
il primo a evidenziare alcuni punti di contatto tra i ragazzi giapponesi
e i «mammoni italiani». A ricordarlo è Carla Ricci, antropologa con una
vita a Tokyo e autrice del libro Hikikomori: adolescenti in volontaria
reclusione. «Il fenomeno è tipicamente giapponese. Ma da lì si sta
allargando in Corea, Usa, Nord Europa, Italia». La prima analogia: «Lo
stretto rapporto con la madre. Proprio il suo essere iperprotettiva,
spesso entrambi i genitori lo sono, può rendere il figlio narcisista e
fragile. E alla prima difficoltà si ritira». Inizia col passare sempre
più ore nella sua camera, col disertare le cene in famiglia, niente
amici, sport, cinema. «Finché un mattino dice di non voler più andare a
scuola perché ha bisogno di riposarsi». Nell' ultimo anno all'
Istituto «Minotauro» di Milano, dove lavorano Gustavo Pietropolli
Charmet e Antonio Piotti, si sono rivolti i genitori di oltre 20
ragazzi. Le loro storie sono coperte dal più stretto riserbo. «Cinque i
più gravi: vivono chiusi nelle loro stanze da ormai tre anni». Spiega
Pietropolli Charmet: «In ogni momento storico e in ogni Paese i giovani
hanno dato sfogo al loro malessere: le isteriche di Freud, i
tossicodipendenti anni ' 60-' 70, le nostre anoressiche. Gli hikikomori
sono figli della cultura giapponese, ma i nostri "autoreclusi"
condividono con loro più di un aspetto». Continua Piotti: «Innanzitutto
la vergogna narcisistica. Lo scarto tra il loro desiderato e il reale è
troppo forte. Colpa anche delle eccessive aspettative dei genitori».
All' origine c' è poi spesso una fobia scolastica. «Ma mentre i ragazzi
giapponesi fuggono da regole troppo severe, i nostri scappano dall'
incapacità di gestire relazioni di gruppo». Identico il risultato: «Si
chiudono in una stanza. Sostituiscono la vita reale con quella virtuale.
Ma Internet e i giochi di ruolo sono solo una conseguenza, non una
causa», afferma Giuseppe Lavenia, del Centro Nostos di Senigallia, una
decina di casi trattati. Spesso, come le anoressiche, negano il proprio
corpo. Ultimo passo: l' inversione del ritmo circadiano, vivono di notte
e dormono di giorno. Più il ragazzo vive nel suo guscio, e per
questo soffre, più è difficile farlo uscire. «Il problema è entrare in
contatto con loro», dice Giovanna Montinari, psicoterapeuta della
cooperativa romana «Rifornimento in volo», altri due casi allo studio.
Non resta che parlare con i genitori, con gli amici. «Ma a volte il
contatto arriva solo grazie a quello che chiamiamo "compagno o fratello
maggiore", un giovane psicoterapeuta». È il caso di Alex: la prima
persona a cui ha aperto la porta, dopo oltre sei mesi di autoreclusione,
è stata la «sorella maggiore» che ha bussato alla sua chat.
Alessandra Mangiarotti La scheda Tra letteratura e cinema
il personaggio di Larsson Plague È uno dei personaggi «minori»
della trilogia dello svedese Larsson: Plague, amico hacker di Lisbeth
Salander, è un giovane obeso sempre chiuso in casa, ma geniale al
computer Il film Da «Uomini che odiano le donne», primo capitolo
della Millennium Trilogy, è stato tratto un lungometraggio thriller in
uscita a fine mese in Svezia. Di giovani auto-reclusi si è occupato
anche un film italiano dal titolo «Hikikomori» del regista Marco
Prati, storia di un trentenne la cui vita viene stravolta da una giovane
incrociata in metrò.
Fonte: www.corriere.it