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sabato 29 novembre 2014

STEFANO CALVAGNA: INTERVISTA

C'è un'espressione che da sempre sta nelle mie grazie: "bagno di realtà". Mi sono sempre immaginato una persona che viene immersa con tutto il corpo in una mistura di liquidi non ben specificati per sincerarsi della verità delle cose. Una sorta di abluzione, una fonte battesimale di cui l'uomo deve prima o poi deve almeno aspergersi per impostare il proprio posto nel mondo. Ideali, sogni e ambizioni sono precondizioni per affermare carattere e personalità ma conditio sine qua non diventa una presa di coscienza seria e globale di ciò che abbiamo attorno.
Il regista romano Stefano Calvagna ha individuato nella realtà effettuale il perno attorno cui definire uno stile personale, in your face e alquanto diretto. Un quadro di insieme multiforme, cromaticamente accattivante, dalla pennellata nervosa ma salda, dai soggetti ben chiari ma striati in sfumature. Di recente è salito agli onori della cronaca per aver dato alle stampe “Non escludo il ritorno”, pellicola sulla vita del noto cantante e artista Franco Califano. Ma il nostro vanta una carriera quasi ventennale declinata in diversi capitoli. Pedofilia, usura, delinquenza giovanile, violenza negli stadi: ogni
argomento aggressivo per Calvagna diviene oggetto di analisi antropologica e pone sinergie fra il singolo deviante (o presunto tale) e il contesto gruppale di appartenenza. Un sovvertitore fotografato nella sua irripetibile unicità, lontano dai format assoluti, sterili e plastificati delle moderne fiction e di molti telegiornali (vi è poi frattura fra di loro?). Calvagna non giustifica né tanto meno assolve, muove anzi la riflessione verso la dimensione squisitamente umana. Quasi a dire che in fondo il malavitoso, il tossico o chiunque sia annoverato in una minoranza socialmente non accettata siano più vicini di quanto si pensi. Forse il nostro vicino di casa, forse il nostro collega di scrivania, forse una persona cui vogliamo bene ... Forse siamo noi, forse sei tu che stai leggendo, forse sono io che scrivo. In tal senso il suo feedback è decisamente attuale e fotografa una società come quella attuale in cui il grigio ha soppiantato bianco e nero, la droga si è democratizzata, le dipendenze sono legalizzate e anzi incentivate dallo Stato, proprio nelle stanze dei bottoni (politica, finanza, ecc.) si commettono reati e illeciti ben più esiziali e pervasivi che nei quartieri periferici delle metropoli. 

Calvagna si è posto nella conversazione con massima apertura raccontandosi con la stessa umanità con cui cerca di pennellare le sue opere.

I tuoi esordi sono da ritrovare nella fiction: al di là delle collaborazioni in America ricordiamo “Vivere” e “Viaggio a Livorno”. Cosa ti ricordi di quei tempi?
All'inizio volevo aprirmi una strada e ho fatto tutto da solo perché non avevo agganci di nessun tipo. Con i ragazzi del quartiere, e oggi sono ancora orgoglioso di essere cresciuto in un quartiere, giravo filmati con il super 8. Da piccolo sono stato sul set di “C'era una volta in America” di Sergio Leone, ma non si può definire un contatto di lavoro. Cercavo disperatamente un canale di contatto con il cinema; mio padre era orologiaio, non poteva certo darmi una mano. Per partire avrei anche fatto lo schiavo, avrei portato il materiale di scena, mi bastava entrare in un set per coronare quel sogno. Cercai allora di passare per la televisione e tramite Lorenzo Flaherty partecipai al progetto “Viaggio a Livorno”. Più che un'avventura fu una disavventura: il regista ottentenne che poi si bloccò a letto per motivi di salute, un freddo cane in inverno; la produzione voleva chiudere tutto ma io proposi di sostituirlo. Nonostante l'opposizione dell'aiuto regista, girai tutto, portati a casa il prodotto anche prima del tempo pattuito e mi diedero 6 milioni di lire. La produzione era molto contenta del risultato e mi chiesero se avessi qualcosa come regista: tirai fuori una storia che avevo scritto e che si chiamava “Senza paura”, molto orientata al poliziottesco anni '70, una delle mie più grandi passioni. Il film uscì e Gian Luigi Rondi, uno dei critici più stimati, mi definì il Quentin Tarantino italiano. Era il maggio 2000: il mio primo film e lo scudetto della mia Lazio, non puoi capire quanto stavo al settimo cielo! In “Senza paura” feci recitare Alessio Boni, che allora, nonostante una recitazione un po' impostata, denotava già buone qualità; poi è diventato il grande attore che oggi conosciamo tutti.

“Non escludo il ritorno”: l'ultimo film che hai diretto e che ha fatto discutere già prima della sua uscita anche solo per l'importanza di un personaggio come Franco Califano. Non credi che uno come il Califfo sia personaggio oggi difficile da trovare? Esiste ancora quel tipo di romanità, di veracità, di gusto per il trash (sia detto in senso buono) o siamo definitivamente schiavi in una società borghese e individualista?
Il romano medio di una volta non so nemmeno se esiste più e comunque io non mi trovo con la mentalità che oggi sembra avere la gente della capitale. Prendi il lavoro: io lì sono pragmatico, rapido nelle scelte, non mi faccio certo problemi se è sabato o domenica. Roma si è impigrita, le persone vogliono stare comode, prenderci meno rischi possibili e farsi gli affari loro. La popolazione si è imbastardita e tanta gente diversa dalle nostre radici ci ha cambiato; non è un discorso razzista ma un oggettivo dato di fatto per la mescolanza culturale. Il “romano de core” con i piedi ben affondati nella città chi lo vede più e sento qualcuno che si atteggia ad avere parenti nella banda della Magliana. Ma ci rendiamo conto? Amo questa città ma nel tempo non sono più riuscito a sopportare il caos e sono andato a vivere con la mia famiglia in provincia. La vita di Califano è stata incredibile a cominciare dalla nascita con il parto sull'aereo a Tripoli; poi cresce in una Roma davvero di borgata, come me, in tempi in cui le borgate avevano ancora una senso. Un uomo e un artista unici, pazzeschi, fuori dagli schemi, lo sento molto vicino per come sono io e avevo voglia di restituirlo alla gente secondo il mio gusto. Io non sarò mai un regista di regime e amo rappresentare il marciapiede, la polvere e la strada: Califano era tutto questo, tra le altre altre cose.

La crudezza delle pieghe umane della natura umana e l'attualità dei fatti mi sembrano i tratti caratteristici del tuo cinema. A cosa di deve questo tuo interesse e perché a tuo giudizio la maggior parte della gente preferisce leggere questi aspetti solo in trasmissioni televisive di dubbia utilità e morale?
Mediamente l'italiano non vuole sbattimenti, preferisce le cose già pronte e non approfondisce troppo per non avere problemi; questa attitudine la si vede benissimo anche nel cinema. Io mi sono sentito qualcosa di diverso dentro rispetto a tanti colleghi che hanno preferito stare in superficie. Il mio coraggio non è stato premiato e non ho mai avuto sostegni e fondi ministeriali; i premi e i riconoscimenti in Italia, quanto meno quelli importanti, non sono cosa seria. A cominciare dal Festival di Roma in cui io e un gruppo di persone abbiamo bloccato le proiezioni in segno di protesta nella recente edizione. Sono legato a film come "Amore tossico" del grandissimo regista culto Claudio Caligari, Rapina a mano armata di Stanley Kubrick, tutto il filone di Tomas Milian. Sono cresciuto in borgata, Roma sud, meglio così che crescere ai Parioli; ho conosciuto gente persa, con difficoltà di ogni tipo. Vedi, questo è il mio background e le radici del mio cinema lì le devi cercare.

In “Arresti domiciliari” riesci in modo accattivante a bilanciare dramma e ironia in un meltin' pot: come mai questa scelta e nel futuro prevedi di ripercorrere quelle orme?
Ho sempre cercato di mettere sfumature ironiche nel dramma. Nel caso del film che citi desideravo raccontare qualcosa di pesante come gli arresti domiciliari a chi non l'ha mai vissuta con una chiave differente dal solito. E' una commedia perché anche nel dolore ci sono paradossi e momenti divertenti, questa è la vita. Venne girato a Riccione; conta che io non amo i teatri di posa, dev'essere tutto vero, entro dappertutto a telecamera a mano senza problemi. I miei film non sono low budget ma love budget, faccio tutto con il cuore e con immensa passione anche dopo tutti questi anni di carriera.

Nel 2005 dirigi uno dei tuoi migliori episodi a mio avviso: “L'uomo spezzato”. Varie sfaccettature si vengono a incontrare: l'attrazione per le adolescenti, il rapporto insegnante/discente e il morboso e cinico attaccamento della stampa nel perseguitare i presunti colpevoli. Nell'opera flirti con lo spettatore facendolo identificare con il protagonista un po' come ne “Il lupo”; come ti equilibri in questo?
Anni fa conobbi una persona con il padre molto ricco che gli chiese: “Cosa posso fare per te? Dimmi qualsiasi cosa e io te la do”. Questo ragazzo poteva rispondere di tutto: una fabbrica, un negozio, un'attività commerciale. Beh gli rispose che voleva fare il rapinatore... Senza ovviamente giustificarlo e partecipare alle sue azioni, ho comunque avuto modo di conoscere quelle abitudini e mi sono convinto di una cosa: i delinquenti hanno codici morali forse anche più forti di chi va a messa la domenica mattina. Io racconto il criminale a 360% e cerco di farlo diventare reale umanizzandolo. Il mio presupposto è: solo per il fatto di uscire dalla legge, di fare del male, non vuol dire che non sia un uomo con sentimenti, emozioni e valori. Il crimine non azzera l'essenza umana! Questo principio però spaventa e ti basta guardare le fiction di oggi per renderti conto di come tutto sia stereotipato, finto. Spesso quelle persone hanno famiglia, una vita normalissima al di là dell'illecito; a me questo interessa anche se so che sia il critico che la gente ne rimane spiazzata.

Non mi piace il calcio e proprio per questo ho visto con la mente sgombra di pregiudizi il tuo “L'ultimo ultras”. Ho l'impressione che per certi versi i tifosi sugli spalti siano un po' come gli extracomunitari per le forze politiche: dei numeri che danno voti e soldi. Ti ci ritrovi in quest'analisi e com'è possibile che in tutti questi anni la violenza negli stadi non è mai stata risolta?
La violenza è fuori dagli stadi più che dentro! Sono solito non criticare mai le opere di altri colleghi ma giudico il mio lavoro con la cattiveria del severo recensore; posso dirti che questo film è l'unico che mi pento di aver fatto. Il paradosso vuole che sia anche quello meglio distribuito in dvd ma oggi lo rifarei in modo completamente diverso. E' stata un'occasione sprecata su un tema che tra l'altro conoscevo bene e che mi appassionava moltissimo. Venivo però da una condizione psicologica devastante e decisi che comunque volevo rimettermi al lavoro; ero confuso durante le riprese. I capi ultras di fazioni diverse non solo di conoscono ma si danno anche appuntamento e decidono insieme come devono andare le cose. Lo vedi in che Paese viviamo? Quella violenza non sarà mai sconfitta, oggi poi si sentono con la tecnologia, chi li ferma più... L'ultimo morto in uno stadio fu nel 1978, poi morti solo all'esterno; io ci andavo e non nascondo di aver conosciuto quel mondo ma di base amavo il calcio, non lo scontro puro. Non so ne oggi è nemmeno più il caso di parlare di ultras: sono i cani sciolti, che non contano niente, ad essere armati di coltello e ferire la gente sugli spalti. Tutto quello che ti ho spiegato funziona anche con la politica e in mille altri ambiti; si organizzano gli altri e tu la prendi in quel posto, il colpevole vero non si viene a sapere.

In “In nomine satan” di Emanuele Cerman hai partecipato al progetto. Il tragico caso delle Bestie di satana lo conosco anche perché i fatti si sono svolti non lontani dalla zona in cui abito. Premesso che si tratta di un caso estremo, è esagerato leggere nella votazione al male di questi ragazzi una moderna gioventù che fatica a trovare punti di riferimento stabili e positivi?
Ognuno di quei ragazzi evidentemente aveva situazioni famigliari o comunque personali difficili; ma non tutti quelli che hanno problemi mettono sotto terra altri cristiani in modo tanto estremo. Rispondendo alla tua domanda, non credo questi siano il simbolo di qualcosa; li vedo come gli abitanti di un posto forse noioso trascinati da un leader e dalla logica malata del branco. Erano giovani, poca esperienza, a quanto pare tanta droga e tanta voglia di fare sesso; per tutta una serie di fattori fra loro è scattato qualcosa di incontrollato che li ha portato all'orrore degli omicidi. La musica heavy metal e soprattutto Satana erano attenuanti, pretesti con cui i capi potevano affascinare gli altri. Satana oggi non sta certo in una canzone, nella testa di un capro o nella stella a cinque punte, né in un rituale magico, ma nella politica, nell'economia e in chi ha in reale potere di decidere della tua e della mia vita.

Non intendo assolutamente entrare nelle vicende giudiziarie che ti hanno coinvolto e da cui sono emersi un film e un libro. Ti chiedo però cosa ti hanno lasciato a livello umano, intendo il retrogusto di vivere in questo Paese, le ferite nell'anima.
(Questo blog rifugge le notizie shock e gli strumenti atti a fare facile sensazionalismo, pertanto non enucleerò quanto è accaduto a Calvagna con la giustizia italiana, che alla fine l'ha comunque assolto da ogni accusa. Detto percorso si può trovare comodamente in web).
Alcune situazioni ti accadono, le percorri e ti segnano a vita lasciandoti una nuova immagine di te; quello che eri non esiste più. Quando mi comunicarono le accuse, cominciai a vedere tutto ovattato e mi resi presto conto di non essere su “Scherzi a parte”. Nel film “Cronaca di un assurdo normale” ho messo dentro tutto ma proprio tutto di quanto accaduto. Ero incazzato nero, incazzato con il mondo; 127 giorni di isolamento ti cambiano la vita. Isolamento nel carcere di “Regina coeli”, una struttura che non dovrebbe nemmeno esistere e infatti chi l'ha progettata si è suicidato una volta resosi conto di quello che aveva fatto. Lì sei un numero, ti chiamano per cognome, non sei importante per nessuno, non capisci nemmeno che ora è, se è giorno o se è notte. Ho cercato di creare una dimensione dentro di me per non impazzire e, da regista, ho dovuto sceneggiare la mia vita. Il carcere è un mondo a parte, una città dentro la città dove il direttore è il sindaco. Tu assicuro che quello è inferno puro e quelli che hanno accesso alle attività riabilitative sono una piccola parte e non certo gli ergastolani. Tornato a casa, odori, colori e oggetti mi sembravano schiaffi in faccia; non riuscivo più a reggere la normalità quotidiana. Come ho fatto a uscirne? Con la scrittura, che mi ha aiutato a sfogarmi mentre dei piccioni mi venivano a trovare alla finestra e io davo loro delle briciole di pane. Credimi, è una ferita che dura per sempre... Nonostante questo, quell'esperienza mi ha regalato un bagaglio incredibile: oggi apprezzo il tempo e la libertà; anche solo passeggiare e godere di un po' di tempo libero è qualcosa di magnifico che prima non valorizzavo.

Il mondo che spesso delinei nei tuoi film è tetro, negativo, tragico e perverso. Come descriveresti il tuo di mondo, voglio dire il tuo mondo interiore?
Il mio non è un mondo così diverso dai miei film. Mi trovo in una realtà dura: sono pensieroso, dormo poco, devo lottare per inventarmi la vita tutti i giorni e regalare un futuro decoroso ai miei due figli. Inoltre devo convivere con brutti ricordi (Calvagna allude ad alcuni fatti che l'hanno visto come vittima, fatti rintracciabili in web). Per il resto sono solare, mi piace stare con la gente e ridere anche se gli amici veri li conto sulle dita di due mani e ne avanzo.