Come meglio descrivere il protagonista della vicenda narrata
nell’ultima fatica dell’indipendent god registico
Domiziano Cristopharo; il personaggio, rigorosamente senza nome e interpretato
dal regista/attore Tiziano Cella, non ha storia né prospettive, ma naufraga in
un liquido amniotico in cui passato/presente/futuro smarriscono ogni valore. Egli si perde in un nichilistico autoannullamento senza far
prigionieri nelle sue facoltà mentali, polverizzandole, abbruttendole, affrancandole
da qualsivoglia contatto con la realtà. Non ci capisce quanto scelga o sia
vittima sacrificale delle proprie turbe; anzi Cristopharo non presenta plot
particolari, fa esplodere letteralmente dallo schermo un essere umano che di
umano ha solo lo status ontologico, ma superato perfino dalla bestia da soma
quanto a controllo e potenzialità.
Il suo corpo viene martoriato (e martirizzato? Chissà…), ferito,
irriso, selciato, scarnificato e il regista ostenta
ogni dettaglio con il
sapido gusto narcisistico e la professionalità del chirurgo. Il corpo: uno
strumento che ancora una volta in lui diviene autentico strumento di
espressione, un corpo stuprato che rimanda, orienta alle pieghe deteriori dell’anima
e non viceversa. Se si volesse
interpretare filosoficamente tale aspetto, occorrerebbe asseverare che
Cristopharo, pur a tratti impalpabile e metaforico, è un fottuto realista e
sceglie per direttissima la carne per penetrare l’interiorità dei suoi
protagonisti. Da fuori a dentro dunque in un meccanismo perverso quasi quanto
la malattia che promana la pellicola, il cineasta romano “manichinizza”, “burattinizza”
il suo attore redendolo mezzo con cui il male si afferma sul pianeta terra.
Da sottolineare che Cella gli dona una grande mano
interpretando con ossessivo rigore di protocollo un derelitto ricolmo di
parafilie, feticismi, solitudine ossianica, alienazione dagli altri e da se
stesso. La nudità allora è cercata, scardina lo schermo e si appendano al
soffitto utilizzando come corda la loro ignoranza coloro che tacceranno l’opera
di pornografia. Opera che invece è puro distillato di dolore, senza urla e
proprio per questo ancora più esiziale.
Sì, perché Cristopharo è capace di snodare
94 minuti di silenzio assordante, senza dialoghi e con istanti che scorticano
la mente dello spettatore più di una pialla arruginita. E riesce a far risalire
ogni singolo frammento alla soggettività del personaggio; gli altri come sono?
Mostri? Amici? Non ricordo film (e ne ho visti tantissimi) in cui si affermi
una cesura più profonda fra l’io e il mondo. E chi è costui se non un freak
metropolitano in una città piena di “manichini di carne” senza anima che gli
camminano contro e non gli ispirano che estraneità? Meglio dunque per lui
spegnere il canale della sensibilità psicotizzando tutto il suo essere. Per non
soffrire, per sentirsi vivo con l’autolesionismo e gli psicofarmaci piuttosto
che con fatui legami interpersonali. Interessantissimo al riguardo il fatto che
i dialoghi (pochi) delle altre persone siano resi muti e sottolineati solo con
la sountrack e dunque con il ronzio psichico del protagonista.
Pregevolissima tra l’altro la colonna sonora: il film
potrebbe essere inteso come un sofferto videoclip di un’ora e mezza tanto il
groove metastatizzante della colonna sonora accompagna quasi ogni secondo della
narrazione. Le note irrorano di putrescenza ogni massa tumorale di quel corpo
infetto che si chiama “Doll syndrome” tra la lavanderia, la graffettatrice, la
bambola gonfabile, i water pubblici e lo sguardo livido, fisso nel vuoto,
emaciato e diafano di Cella. Tutto ciò è stato firmato a Il cristo fluorescente
e gli Jarman.
Interessante anche le prova della giovane attrice Aurora
Kostova e di Yuri Antonosante, che entrano in contatto con Cella recando
placida normalità in un oceano di un’orchestra disarmonica.
Questo film è da considerarsi la seconda parte di una trilogia partita con "Red krokodil" (recensito sul mio blog qui), inteso come purgatorio. Qui si parlava in sede di presentazione di inferno e mai promessa fu più mantenuta: "Doll syndrome", a parere di chi scrive in assoluto il miglior capitolo della carriera di Cristopharo, ruba lapilli dal regno di satana per scagliarli dapprima nel cervello del protatonista e poi sullo spettatore, deflagrato in corpo e anima e divenuto a sua volta vittima.
“Doll syndrome”: la sindrome della bambola, una condizione
inventariata dalla medicina che riguarda lo sguardo perso nel vuoto di certe
persone, “imbambolate” appunto davanti a televisione o computer. Nel film ciò si
materializza degli occhi di Cella sia per la sua ossessione per una bambola
gonfiabile.
Chissà che il buon vecchio Cristopharo abbia voluto
metaforizzare con la dedizione maniaco ossessiva del protagonista la ricerca
parossistica da parte di molti abitanti del pianeta terra anno 2014 dei vari
surrogati dei sentimenti. La plastica della bambola non potrebbe dunque
rappresentare l’artificialità di certi legami, esperienze cui non solo la
tecnologia ma anche il congelamento di certo calore umano vecchio stile hanno cagionato?
E allora in lui possiamo leggerci l’uomo moderno. E allora
la psicosi di massa. E allora la chiusura autoreferenziale nelle case
autistiche di ciascuno di noi alle prese con demoni interiori terrificanti.
E allora… Correte a vedere questo grande film!