A sinistra Daniele Misischia, a destra l'attore Riccardo Camilli |
Un giovane cineasta che, percorrendo gli scoscesi crinali della cinematografia indipendente, propugna una forma cinema personale, ben definita e solida. Questo e molto altro è Daniele Misischia, classe 1985, romano e che annovera nel curriculum tutta una serie di produzioni fra corti, lunghi e web series.
Il vostro blogger ci ha fatto due chiacchere e Daniele non si è sottratto al confronto approfondendo
vari aspetti della settima arte e della vita in genere.
Sono passati diversi anni, non tanti
a dire il vero, fra il tuo primo corto del 2007 «Giorni di notte»;
annoti già un numero cospicuo di produzioni. Come e perché sei riuscito a dare vita a così tanti
lavori?
Ho sempre voluto raccontare tante
storie nel modo più veloce possibile. Come finivo un progetto, mi
veniva in mente un'altra storia, magari di natura diversa, ma sempre legata al cinema di genere. Addirittura ho cestinato decine di sceneggiature.
E' la stessa voglia di un bambino di narrare qualcosa e vedere come si
sviluppa. Nei primi corti ho avuto la possibilità di correre in modo sostenuto
per la collaborazione sempre con poche persone; potevo decidere in piena
autonomia di gestire le riprese.
Quali stimoli ti hanno condotto al
cinema e successivamente a diventare regista?
Ho sempre seguito il cinema
fin da bambino; per me era un mezzo per entrare in mondi diversi, fantastici o reali, ma sempre più interessanti del nostro. Sentivo la spinta irrefrenabile di narrare: da piccolo provai con il fumetto, poi con la
scrittura, poi non mi bastava più e volevo vedere storie animate
sullo schermo. Regia, sceneggiatura e montaggio le considero tre tasselli
fondamentali e cercai di impararli al meglio possibile. In più ho visto tantissimi film di tutti i generi, anche se
sono cresciuto con l'horror e action di genere come John Woo o
Takeshi Kitano. Per i classici, che ho divorato a profusione, citerei Tarantino e Kubrick. Negli ultimi anni
mi sono avvicinato anche al filone italiano apprezzando molto pellicole di grandi come Lenzi o Dario Argento per l'horror negli anni '70. Riguardo ad Argento, credo sinceramente che con la mentalità sia rimasto
negli anni '80, non si è aggiornato; adesso si gira horror in modo
diverso e il fossilizzarsi sugli stili del passato è un errore che fanno in parecchi. I ritmi e i
tempi si sono evoluti e il loro modo di girare è obsoleto; Argento adesso è carente proprio la
tempistica delle scene e non mi stupisce che le sue ultime produzioni siano in caduta libera.
Ho visto due dei tuoi film: «Il giorno
dell'odio» e «Inside». Un sottotesto che ho colto in entrambi è
il confronto tra i «proletari» (chiamiamoli con questa definizione
alquanto generica) e i ricchi. Quasi che i primi si arrabattano
giorno dopo giorno per conquistarsi il pane a dispetto dell'opulenza
con cui vivono altre categorie sociali. Ti ci ritrovi in questa
disamina? E, se sì, che tesi vuoi dimostrare in merito?
Quando ho iniziato i due progetti non
ci pensavo, ma poi me ne sono accorto; non ho remore a dire che è una cosa che penso: chi ha
soldi e mezzi ha anche la possibilità di tirarsi fuori da situazioni
losche. Non mi sono soffermato troppo a rifletterci, ma è uscito il mio punto di vista negativo su questo rapporto di classe. Trovo
affascinante comunque il poter raccontare i lati oscuri delle persone al di là del tenore di vita che hanno, è uno stimolo che mi ha sempre accompagnato.
Credo tu riesca ad ottimizzare bene il
gap fra il low budget e la qualità; rivesti vari ruoli all'interno
della logistica e spremi tutto lo spremibile. Come lavori di solito e
che cosa chiedi agli attori?
Esigo che capiscano dalla prima all'ultima
parola la sceneggiatura, il senso di ogni scena. Sul set molte volte
non spendo troppo tempo a parlare, perché mi aspetto che tutti capiscano
dove devono andare con il personaggio. E' molto importante fornire una
regia dinamica che si possa sposare con un montaggio adeguato;
montaggio e regia sono quasi l'unica cosa per me. Questo per ottimizzare; io
mi autofinanzio i film. Ne «Il giorno dell'odio» le spese sono
state divise con Claudio Camilli e in «Inside» con Cristiano Ciccotti.
L'effetto molto traballante della
macchina da presa ne «Il giorno dell'odio» non mi ha convinto fino
in fondo. Si è trattato di una scelta voluta? Credo di sì, anche
perché in «Inside» i movimenti sono più razionali.
Scelta assolutamente voluta: o il film lo facevo così
o mi sentivo di prendere per il culo lo spettatore. Non potevo pulire troppo, volevo qualcosa di sporco per onestà. Tsukamoto fa film cattivi e violenti dall'inizio alla fine, cerco di seguire questo esempio togliendo ogni compromesso possibile. Il disturbo al
pubblico alla fine fa parte del film, quindi non mi turba che dia fastidio sotto vari punti
di vista come quello visivo, anzi da un lato mi fa piacere. «Il giorno dell'odio» è un omaggio
alla trilogia di Refn di «Pusher», la adoro e credo sia qualcosa di
estremamente sottovalutato; lì la camera movimentata si vive in ogni secondo.
Nei tuoi film che ho visto regna un
certo pessimismo; le tinte si fanno profondamente drammatiche e
delinei un'Italia che certamente può guardare al futuro con
preoccupazione. Ti sei limitato a descrivere con approccio
documentale dei fenomeni o a ciò è sotteso un tuo preciso punto di
vista più generale circa il nostro Paese?
Non ci avevo pensato: quando racconto
una storia, non mi viene in mente la situazione del mio Paese. Ma siamo in
acque pessime, questo è innegabile. Prendo lati di me e di persone a
me care e cerco di metterle in personaggi negativi, perché i lati oscuri sono
quelli che mi interessano di più. Mi concentro di più sull'aspetto
umano, antropologico, ma la storia finisce lì, nessun riferimento preciso alla questione politica.
Il cinema italiano: fino alla fine
degli anni '70, non dico tutte, ma molte delle sue declinazioni
viravano verso un intento popolare. Era dunque un «cinema pop» nel
senso più etimologico e buono del termine, ovvero narrava le
peripezie quotidiane della gente «popolare», comune. Gli anni anni
'80 hanno aperto scenari legati alla superficialità e al disimpegno,
mentre successivamente ci si è persi nella confusione pur
registrando delle ottime produzioni. Ritieni che il nostro cinema
potrà ancora esercitare quell'impegno sociale?
Sì e no: quel tipo di cinema sociale
si può sempre fare solo se si riesce a farlo bene. Io mi chiedo se abbiamo
ancora qualche bravo autore per scrivere buone sceneggiature più che altro. Tutto
si può fare, ma non lo faremo mai finché noi giovani non avremo
delle possibilità di esprimerci. Sono cero che nel sottobosco c'è
tutto e a buoni livelli, ma c'è difficoltà di emergere, una cronica e disarmante barriera fra il talento e la concretizzazione dei progetti.
Le estenuanti difficoltà che
incontrano i giovani registi a proporsi sono le stesse che oggi
patiscono i normali civili di giovane età. Sinceramente che idea ti
sei fatto del nostro Paese nell'anno 2012?
L'idea non potrebbe che essere negativa; per natura
sono positivo e tengo duro, ma devo dire che tutto è demoralizzante
e triste. Qui è una questione di mentalità, che da noi è vecchia,
antica, non al passo con i tempi. Spero in una rinascita in tutti i
campi, ma ogni anno sembra più difficile. Il Paese non smette di
stupirci, anche in peggio.
Uno degli elementi che ho maggiormente
apprezzato di «Inside» è la soundtrack. Pulsioni elettroniche
contrappuntano la tensione che hai ricamato nella vicenda. Mi pare di
aver capito che sei molto appassionato delle sette note; come lavori
sulla musica per i film?
Lavoro con un bravissimo compositore,
che è Cristiano Ciccotti. Nelle colonne sonore siamo simili io e
lui; gli ho dato carta bianca e ha fatto un lavoro egregio. Dopo aver
guardato il film tante volte, ha improvvisato per ogni scena con la
musica per le tonalità e i ritmi giusti. Ne «Il giorno dell'odio»
montai con tutte musiche non originali di gruppi rock e classica
famose; quando ho trovato la distribuzione, ho rimontato tutto per i
diritti d'autore. E con Ciccotti abbiamo lavorato su musiche diverse
ma cercando di mantenere le stesse atmosfere. Sono molto appassionato di musica comunque: per dieci anni ho suonato
in un gruppo rock e adesso suono la batteria nel genere indie rock con i «Viva Santa Claus».
Sei alla lavorazione di «Twelve»?
Puoi anticiparci qualcosa?
Certo, con piacere: è una ghost story scritta sempre da
Ciccotti. L'abbiamo iniziata a girare per non stare con le mani in
mano poiché stiamo attendendo i finanziamenti per un progetto molto
ambizioso e che abbiamo in cantiere da vari anni. In «Twelve» c'è
molta tensione horror, atmosfera macabra dal primo minuto con le riprese girate in
un paesino fuori Roma che già di suo emana gusto e atmosfere molto particolari.