Un eclettico personaggio si aggira per
i club di tutta Italia: il suo nome è Luca Zeta, non solo uno
stimato dj, ma anche un professionista della musica che ha collezionato ruoli di conduttore televisivo, produttore discografico, compositore, arrangiatore, remixer.
«Artista» insomma nel senso più ampio del termine. Con un minimo
comun denominatore: la musica dance e in particolare le sue
declinazioni italo ed hands up.
Ma come è iniziato tutto questo?
Dai sei anni partecipai ai concorsi per
bambini piccoli cantanti; ho poi mantenuto una viscerale passione per
l'ambiente e dopo il liceo entrai come dj in una radio locale per
passare dopo in tv con un programma musicale e infine come dj in
discoteca. Ricordo ancora il mio esordio: il locale poteva tenere 200
persone e la prima domenica in cui ho lavorato entrarono in 580, una
soddisfazione grande. Godevo di
un certo seguito nella mia zona; gli allora gestori mi diedero letteralmente le chiavi del club facendomi esercitare e dai lì iniziai come autodidatta alla consolle.
un certo seguito nella mia zona; gli allora gestori mi diedero letteralmente le chiavi del club facendomi esercitare e dai lì iniziai come autodidatta alla consolle.
Il primo singolo risale al 1993 con un
remix dello storico pezzo anni '80 «State of the nation»; poi la
folgorazione per la progressive, la techno e la italodance. Ormai sei
sulla scena a grandi livelli da 20 anni; che cosa è cambiato da
allora nel tuo modo di concepire le produzioni?
Ho migliorato l'aspetto tecnico, il
gusto e l'attenzione per i particolari; cerco sempre di essere
puntiglioso, ricercare i suoni e creare testi che favoriscano
l'emozione. Sono fiero di questo stile più affinato, ma non mi sento
arrivato; un aspetto non è mai mutato: l'entusiasmo per questo tipo
di musica. Prima fare un disco non era facile, corrispondeva a un
traguardo, oggi per via della tecnologia chiunque è più
avvantaggiato.
E come persona registri dei
cambiamenti?
Ho abbracciato una certa maturazione e
al contempo perso un po' di ingenuità; ho imparato a guardarmi alle
spalle, essere critico e oggettivo nei confronti delle produzioni che
mi vengono proposte e delle mie. Con il tempo impari a selezionare
meglio e ad entrare in un mondo che non è rosa e fiori, ma fatto di
amicizie che spesso non sono sincere.
Il 2012 non ti ha visto tirare i remi
in barca: registriamo infatti «One more try» con Razyr, «Crazy
summer» con Carmixer e da qualche giorno hai annunciato la scrittura
di un pezzo firmato però Omar Calia e dal titolo «I don't care».
Senza dimenticare l'ep con Sander. Ti va di parlare di queste
produzioni?
Volentieri. Innanzi tutto arriverà tra
non molto il mio nuovo singolo, tra l'altro non produco un singolo da
solo dal 2010. Quest'anno mi sono dato alle collaborazioni, ma è
un'inclinazione che mi accompagna da sempre; le sinergie mi rendono
felice di fare questo lavoro, considero lo scambio proficuo per me e
per gli altri. Citerei Sander con cui ho inaugurato un percorso dal
2006, siamo sempre alla ricerca di nuovi spunti riprendendo nel 2012
nostre vecchie canzoni e dotandole di un abito nuovo. Razyr invece è
un ragazzo tedesco che mi fece sentire questo pezzo hands up, cover
di un altro del 1990; l'ho rielaborato e ricantato con Sander.
Carmixer: c'era già stata una collaborazione nel mio album «Welcometo my world», rimanemmo in contatto; la traccia è buona, secondo me
però arrivata troppo tardi al limite temporale delle produzioni
estive. Infine «I don't care»: l'idea arriva da un dj tortonese che
all'epoca mi fece ascoltare un provino, aveva appena 17 anni. In un
concorso per giovani cantanti ho poi notato questo ragazzo che ha
vinto; gli ho poi fatto interpretare il brano e già durante la
premiazione annunciai la possibilità di cantare nel pezzo; lui aveva
16 anni. La canzone unisce dunque due persone molto giovani; il testo
narra di un ragazzo che si innamora di una donna più grande.
Il genere cui ti riferisci è
fondamentalmente italodance con qualche venatura hands up. Perché
questi due filoni, che all'estero invece raccolgono più di un
appassionato, nel nostro Paese rimangono confinati a una ristretta
cerchia?
Il nostro Paese è retrogrado, ha
difficoltà ad affrontare certi generi; mediamente siamo più pronti
a seguire mode consolidate anziché avventurarsi in nuovi filoni. I
nostri sono tempi di appiattimento sulla house e ciò che fa tendenza
perché le radio suonano quello; la bellezza della musica sta invece
nell'apprezzare vari linguaggi. E' qualcosa di assurdo il
rinnegamento della musica italodance proprio in Italia, un filone che
ci ha reso famosi in tutto il mondo; paradossale che oggi tiri molto
il pop Usa che ha preso molto dalla nostra melodia.
Nella tua musica sento uno spirito
molto mediterraneo, in synths e ritornelli dimostri un'amore per la
canzone italiana tradizionale. Ritieni che la commistione di culture
musicali e generi possa fare bene a un produttore qualsivoglia musica
suoni?
Sono d'accordo su entrambe i tuoi
stimoli, è opportuno lasciarsi contaminare anche seguendo un proprio
genere. Quando creo la melodia di un riff, tutto sembra nascere da un
momento, un cassetto della mia memoria, in cui ovviamente sono
custodite atmosfere di diversissimo registro. Io poi sono impregnato
di musica italiana, amo il cantautorato, sono un inguaribile sorcino,
non disdegno anche il rock più commerciale e orecchiabile. Magnifici
poi gli anni 80, pieni di colore e passione; con il senno di poi i
loro suoni appaiono ingenui, ma allora la si sapeva fare musica come
ma M maiuscola e c'era costrutto in melodie e arrangiamenti.
In varie occasioni ho notato che ti
piace definirti artista: in che senso? E quali connotati pensi debba
avere un artista per fregiarsi di tale appellativo?
Non ho mai affrontato questa
professione come semplice lavoro e tecnica, ma con creatività, senza
ricorrere alle mode e cercando di essere originale. Mi sono
avvicinato anche al teatro diplomandomi al Piccolo teatro di Milano.
Artista è una denominazione a tutto tondo, rimanda all'estro
creativo personale, all'attitudine, a certa estetica ricercata.
Sinceramente come ti sembra il clubbing
nel nord Italia?
Sono deluso. Molte personalità anche
di buon talento si sono arenate perché il clubbing è diventato
sterile. Un dj che vuole emergere si sente chiedere quanti tavoli
riesce a garantire, quante bottiglie far ordinare; squallido anche il
discorso dei privé o le ragazze che ballano per mostrare quanto è
di tendenza il club. Tutto è appiattito, troppo standard, non vedo
nei djs la voglia di essere alternativi o pittoreschi. All'estero è
diverso: in Francia in camerino ho sentito che i djs suonavano generi
del tutto diversi nello stesso set e, cosa impensabile da noi, la
gente ballava tutto.
Negli ultimi anni pare che la figura
del dj sia stata spodestata di quell'alone di santità che aveva
negli anni '90; tecnologia, peer to peer e download rendono oggi
l'appassionato indipendente. Il dancefloor si fa così aggiunta, non
ambiente sostanziale per imparare le novità. Che ne pensi?
Sono d'accordo. Andavo sempre nei
negozi a comprare i dischi in uscita scegliendo spesso produzioni che
poi suonavo solo io. Le persone che rivedo oggi e che frequentavano
locali dove io ero resident, mi ricordano che quelle tracce non sono
mai diventate famose ma che io le suonavo e facevano ballare di
brutto. Credo che la musica in un club oggi sia uno degli ingredienti
minori in una serata; è più importante avere il tavolo prenotato,
sfoggiare il vestito di marca. Sono elementi squallidi e che mi danno
una immensa tristezza; non invidio che muove i primi passi oggi.
Che cosa ti piace ascoltare in ambito
prettamente dance? E intendo anche le frange lontane dal tuo stile.
Sono estremamente aperto: dipende se
qualcosa mi piace, ma mi deve piacere al di là del genere. Seguo
anche certo pop dance attuale come Pitbull o David Guetta, ma mi
affascina anche il dupstep sebbene non sia melodico; inoltre apprezzo
le commistioni fra potenza e melodia. Generi come minimal o house
invece non mi dicono nulla.
Francamente che ruolo ritieni si possa
ritagliare oggi un ragazzo giovane in un contesto in cui pare tutte
le porte ti vengano chiuse in faccia, in cui il talento viene
vilipeso da altri interessi, in cui l'individualismo esasperato la fa
da padrone?
Viviamo un momento difficile. Ho detto
di recente a un giovane produttore animato da tanta voglia di fare:
«Siete una generazione arrivata tardi». Oggi se non hai santi
protettori, fai poco; e parlo del modo di affrontare il mondo del
lavoro, ci sono ristrettezze in tutto. La ricetta per indurre
miglioramenti è mettersi in gioco fino in fondo e fare uscire la
personalità.
Che persona sei fuori dalla consolle o
dallo studio di registrazione?
Uno normale, lontano da quell'idea di
star che da varie parti cercano di inculcarci oggi; cerco di
distinguermi, di essere effervescente, ma a modo mio, senza
tirarmela, sempre tranquillo.
Il mio pezzo preferito di Luca Zeta in
assoluto è «Don't forget it» sia nel magnifico remix di Danijay
che anche negli altri (Fabrizio e Marco, Sander, ecc). Che ricordi
hai di quel pezzo?
Nasce da una collaborazione con i miei
soci storici; conobbi poi di Daniele (Danijay) e gli altri remixer.
Il testo tocca il senso dell'amicizia, una delle cose più importanti
della mia vita.