Due premesse d'obbligo:
1) questa intervista al noto regista Marco Risi non ha pretese di stretta cronaca poiché è stata da me svolta nel 2008 e l'avevo pubblicata solo sul forum di cinema in cui scrivo con piacere da anni Dvdforum.
2) Il modo in cui nacque questa intervista fu tanto rocambolesco quanto inaspettato. Presenziavo con passione al Grinzane Cavour film festival a Stresa (Vb), evento che si svolse per anni ma che oggi non esiste più. Era proiettata "Il muro di gomma", una pellicola dello stesso Risi; davanti alla sala, mentre attendevo con il mio amico Luca Anselmi di entrare, scambiai al volo due parole con uno degli organizzatori il quale mi disse che Risi era dietro di me e che, volendo, avrei potuto intervistarlo. Questo non solo per riassaggiare nella mia mente un ricordo meravigliosamente dolce come il miele, ma anche per dire che non mi ero
preparato alcuna domanda, tutto fu frutto di improvvisazione.
L'impreparazione venne mitigata dalla trepitante emozione che mi colse di sorpresa avendo davanti un mio mostro sacro personale.
Per tutti coloro che si sono lasciati scuotere nelle emozioni dalla
cruda veridicità di un film come “Meri per sempre”, il nome di Marco
Risi dovrebbe significare qualcosa. Regista figlio del grande Dino, le
sue produzioni spesso sono incentrate sulla descrizione, talvolta
spietata, della dura realtà delle situazioni. Incontrato al recente
Grinzane film festival di Stresa, il cineasta parla in modo trasversale
della sua carriera, esponendo la sua concezione di cosa voglia dire fare
cinema.
Da dove nasce questo attaccamento al reale?
Da dove nasce questo attaccamento al reale?
Da
ragazzo amando il tennis, mi soffermavo ad osservare il volto del
giocatore perdente, cercando di capire cosa gli passasse per la testa.
Ho sempre nutrito una certa fascinazione per le reazioni della natura
umana di fronte alle brutalità della vita. I meccanismi che scattano
nella mente di chi sta in basso nella scala gerarchica e le reazioni
conseguenti: questo ho cercato di trasferire in certi miei film.
E' partito però dalla commedia.
E' partito però dalla commedia.
Sì,
le prime tre pellicole che ho girato virano su quel versante; diciamo
che quando hai voglia di emergere, cerchi di cogliere qualsiasi
opportunità e nel 1983, quando mi proposero di girare “Vado a vivere da
solo” con l'allora promessa Gerry Calà, non ci pensai due volte. Non vedo
questo film da quegli anni, non so che effetto mi farebbe oggi; so però
che è molto rivalutato anche grazie all'uscita in dvd, ma credo che con
quei lavori volessi farmi conoscere per realizzare davvero quello che
mi interessava.
“Meri per sempre” ha davvero lasciato il segno. Che ricordi ha di Michele Placido?
“Meri per sempre” ha davvero lasciato il segno. Che ricordi ha di Michele Placido?
Due
anni prima avevo fatto uscire “Soldati”, che denunciava gli effetti
deteriori della vita in caserma; Placido ebbe un ruolo decisivo per
“Meri”, poiché, dopo essersi innamorato del libro omonimo di Aurelio
Grimaldi, propose al produttore di fare il film. Quando nomi altisonanti
come Moretti ed i fratelli Taviani rifiutarono, fui chiamato io.
La scelta di portare in scena anche attori presi dalla strada fu coraggiosa.
La scelta di portare in scena anche attori presi dalla strada fu coraggiosa.
Già,
ti accolli dei rischi, dato che non sono supportati da una
preparazione tecnica, ma a volte è necessario per rendere le scene il
più autentiche possibile. Anche ne “Il branco”, al fianco dei
professionisti, misi alcuni ragazzi del posto in cui si girava, mi pare
la provincia di Viterbo. Venni molto criticato per quella pellicola, in
quanto avrei raccontato con eccessiva acredine un fenomeno non facile,
mettendomi dalla parte dei carnefici; ma mi sembrava una prospettiva
originale da cui partire.
E negli ultimi suoi film arriviamo a toni più distesi.
E negli ultimi suoi film arriviamo a toni più distesi.
Sì,
c'è un ritorno a certa commedia, ma con una punta di satira che fa
riflettere; in “Nel continente nero” vivevano velate critiche ad alcune
manie di certa Italietta ad esempio. Fui esortato a non fare uscire
“L'ultimo capodanno” da mio padre, che rimane il mio critico peggiore;
in effetti il film non ottenne grande successo dalla stampa, ma molte
persone mi dicono di apprezzarlo parecchio.
In sostanza che cosa vuol dire fare cinema?
In sostanza che cosa vuol dire fare cinema?
Per
me il parametro numero uno per un regista è avere una bella storia da
raccontare, una vicenda della quale lui sia il primo fautore; e poi mai
prendere in giro il pubblico, perchè la gente è troppo intelligente per
non accorgersi che stai bluffando. Se rispondi a questi due criteri,
eventuali critiche saranno non ti bruceranno, in quanto hai fatto il tuo
dovere con te stesso e gli altri.
Prossimi impegni?
Prossimi impegni?
Un
film tv in uscita a gennaio 2008 su canale 5 dal titolo “L'ultimo
padrino” e basato sulla figura del boss Provenzano. Dopo tanti anni
torno a lavorare con Placido, sono certo che la cosa sarà di buon
auspicio.