Quanti produttori in ambito italodance
possono vantare un impatto sulla scena come Danijay?
Pochi, molto pochi. Daniele
Zaffiri, questo il suo nome di battesimo, di
Genova, classe 1977, ha infiammato le menti di tanti appassionati e
messo a ferro e a fuoco molti dancefloor in questi ultimi dieci anni
scolpendo il suo nome a chiarissime lettere nella storia di questo
genere. Anni di hits ballatissime, anni di rispetto di addetti ai
lavori, anni di collaborazioni che contano. Era il 2003 quando una
canzone fece il giro di tutta Europa penetrando come un panzer
soprattutto il Italia e Spagna. Nasceva «Il
gioco dell'amore», che con il featuring di
Hellen
mieteva proseliti in
ogni dove. Poi «I
fiori di lillà», altro fiore all'occhiello,
per non parlare di «Luna
nera», «Encanto»
e tante altre canzoni proprie e remix che consacrarono questo nome
come decisivo per la allora nuova ondata della italo. Un'ondata che,
crescendo piano piano sulla rinascita del genere nei primi 2000, era
destinata, dopo un'ingente impennata iniziale, a infrangersi contro
un radicale mutamento del modo di intendere la dance da clubbing. Era
il rimontare dei ritmi sincopati e ripetitivi della house,
che trovò nella seconda parte dei 2000 piena consacrazione a livello
commerciale affossando quel crinale «popolare» che la italo aveva
raggiunto sgomitando orgogliosamente anche grazie a Danijay. Il dj
decise da un giorno all'altro di appendere la consolle al chiodo, non
se ne sentiva parlare più, pareva che quel «gioco d'amore» che
aveva intessuto con i fan si fosse inaridito fino alla
sclerotizzazione. In realtà la fiammella della passione non si
spense per fortuna del tutto e Daniele nel mese di aprile 2013 ha
annunciato tramite un portale web nuovo di zecca
(www.danijay.com/website)
il ritorno.
Con cordialità il nostro
non si è sottratto al fuoco incrociato di domande del blog; ci fa
sfondo un'accogliente room della discoteca Gioia69
di Milano, in una notte in cui Daniele ha fatto sparare in aria le mani ai
presenti con un dj set coinvolgente. L'occasione era ghiotta: il
compleanno dell'amico-collega Luca
Zeta.
Anzi
tutto ben tornato; dopo una lunga assenza il tuo nome ha ricominciato
a girare, ricordo bene la mia emozione nel rivedere il tuo profilo
facebook ancora vitale e dotato di aggiornamenti. Perché sei tornato
sulla scena e come mai l'avevi abbandonata anni fa?
Grazie mille, è un
piacere. A un certo punto mi sono accorto che per elevare la qualità
del progetto avevo bisogno di tempo; di giorno si lavora e talvolta è
dura mettersi alla sera con la testa lucida a finire a testa i pezzi.
Comunque: primi mesi del 2009, era appena finito l'album
«Plug'n'play»,
avveniristico, che ha richiesto un anno e mezzo di sviluppo. Era
qualcosa di complicatissimo da ideare e concretizzare, doveva essere
compatibile con tutti i dispositivi, mantenere il link con l'utente
che riceve aggiornamenti con l'artista tramite il computer. Investii
tantissimi mesi con la Warner di Milano, che è editrice di tutti i
miei brani; il loro direttore voleva mettere in stand by il nome
Danijay, mandare avanti il concept «Plug'n'play» e pubblicare in
modo simile con Laura
Pausini. Arrivammo a pacchetto finito, ma la
Warner fece dietro front poiché in un summit mondiale dell'azienda
avevano annunciato tagli pesanti. Erano gli albori della ben nota
crisi economica e mancavano i fondi per l'investimento; ripresi il
nome Danijay e feci uscire lo stesso il «Plug'n'play», che ebbe un
richiamo nettamente inferiore. Lo ricordo però con orgoglio perché
mi occupai di tutto in prima persona: trenta canzoni, video,
interfaccia, confezionamento, publishing, vendita, distribuzione.
1200 prodotti sono stati venduti tutti: sono numeri minimi ma, in
proporzione al mercato discografico, cifre grosse. Il tutto mi ha
portato a fare una tournée in tutta Europa e dopo ho avvertito un
calo di adrenalina; al contempo l'azienda di famiglia mi ha
richiamato e le risorse erano molto poche. E poi la musica era
diventata inascoltabile, non rispecchiava più il mio gusto e quello
che era stata la discoteca fino a quel momento. Le radio operarono da
un giorno all'altro un taglio netto dela dance commerciale, un vero
suicidio. Noi come discografici italiani eravamo i numeri uno; il
mercato si è spostato oggi in nord ed est Europa e noi siamo gli
ultimi degli ultimi, non abbiamo attività e ci siamo sparati nelle
palle. Con il tempo il sound più melodico è tornato e Luca Zeta è
stato fondamentale per il mio ritorno. A parte la laurea in lettere,
ha una formazione professionale e culturale di tutto rispetto; due
conservatori uno di piano classico e uno di clarinetto, master in
America. Con lui si parte da progetti armonici di un certo tipo, il
livello si eleverà; sono tornato per restare.
Ammiratori
e detrattori devono convergere almeno su un punto: la tua coerenza.
Che cosa ti spinge a rimanere fedele alla linea che da sempre ti
contraddistingue?
La non dipendenza
dall'attività di produttore; chi produce deve prevedere le tendenze,
io ho solo messo in atto il mio gusto. E per qualche anno il mio
gusto è coinciso con il gusto della gente trainando anche la gente
verso di me. Poi il mercato ha sviato bruscamente.
In
questi ultimi due anni ho intervistato diversi produttori italodance;
è paradossale vedere il talento che emerge nel nostro paese in fatto
di italodance e la concomitante freddezza di pubblico e critica. In
cosa sbagliano a tuo parere? Cosa ti senti di dir loro?
Non credo sbaglino in
qualcosa, hanno però la sfortuna di essere entrati in azione nel
momento peggiore degli ultimi trent'anni nel mercato discografico
italiano. Anch'io mi rammarico del fatto che, se avessi iniziato la
carriera cinque anni prima, sarebbe stata un'altra cosa. Il settore
in cui si muovono questi ragazzi è tutto da riseminare e fare
rinverdire.
Sii
sincero: cosa ne pensi della progressive
house?
E di producers italiani come Stefano
Carparelli
o The
coolbreezers,
che tengono vive le melodie ma con un approccio più al passo con i
tempi?
Forse per loro questo
genere è l'espressione migliore del loro gusto e vi si trovano in
sintonia; io non ho nessun problema a dire che a me non interessa per
niente la progressive house. Perché mai dovrei andare dietro a un
carrozzone in cui non credo?
Facciamo
un passo indietro: dì la verità. Che cosa hai provato quando il tuo
«Il gioco dell'amore» dieci anni orsono valicò i confini nazionali
imponendosi anche in Spagna e varie classifiche?
Ci ho messo diversi mesi
a rendermene conto, forse qualche anno. Ricordo bene quei tempi:
suonavo nei locali genovesi, non volevo diventare produttore e avevo
canticchiato, al ritorno da una serata in discoteca, una melodia in
macchina. Chiesi ai ragazzi della macchina di che pezzo di trattasse,
ce l'avevo in testa, l'avevo sentito da qualche parte. Poi l'ho
creato e per tre anni fu il disco più ballato nei club; poi me ne
impossessai e immaginate l'angoscia quando ho sentito a Discoradio
la canzone con un altro nome. Poi, anche grazie a mio zio Alberto
Fortis, sono riuscito a ricatturarlo come
Danijay.
Tra
i tuoi tanti pezzi mi ha sempre incuriosito, oltre ad attrarmi molto,
«Ride
the way»,
che facesti con Provenzano
dj.
Come mai vi buttaste su questo progetto? E che feeling hai nei
confronti della dance anni '90?
Quelli sono i mattoni, il
sangue della vene; ho tutto e so tutto sulla dance anni '90! Amerigo
(Provenzano) un giorno mi chiese una canzone per Haiduchi;
quando gli mandai il risultato, mi rispose che potevamo tenerla per
noi, tanto era bella. Nacque sulla base dell'altra canzone che feci
con questo dj, «Vibe»; con il senno di poi devo dire che quella
traccia fu davvero riuscita.
Tra
i tanti personaggi del mondo della musica con cui hai collaborato chi
ti è rimasto più dentro da un punto di vista umano oltre che
artistico?
Ce ne sono tanti, io ho
ottimi rapporti con tutti. Provenzano, Roby
Rossini e Luca Zeta direi che stanno sul podio.
Poi ho grande stima anche per altri come Prezioso, Molella,
D'Agostino.
So
che questa può non essere una domanda facile. Non sono così
addentro al mondo della produzione musicale, ma la mia impressione è
che, come in tanti altri settori, anche nel vostro sia preferibile se
non necessario conoscere gente in alto per puntare in alto. Ma perché
nel nostro Paese non riusciamo a uscire da questa logica clientelare
e, diciamolo, a volte mafiosa?
E' semplicissimo: quello
che fa girare il mondo sono i soldini e i grossi investimenti mandano
avanti tutto. In Italia non ci sono dei limiti di percentuali di
passaggi radiofonici fra canzoni italiane e straniere, questo accade
ad esempio in Francia. I big mondiali così mettono sul piatto
ritorni economici che il nostrano si sogna; se ci fosse un tetto alla
musica straniera, noi potremmo giocarcela, ma adesso la nostra
concorrenza è impossibile. E' paradossale: in un momento in cui la
dance è il genere musicale primo al mondo, c'è la maggiore crisi
perché i colossi mondiale ci calpestano.
Che
bello ritrovarti con due nuovi lavori, anche se remix, di «Explode»
di Roby Rossini e «Let me dance» di D-Boot. Sei sempre tu, con te
tue melodie ariose, ampie, celestiali che fanno assaggiare libertà e
spensieratezza. Continuerai su questa strada con nuovi pezzi?
Ti fermo però: nel caso
di «Let me dance» non sono io, si sono appropriati del mio nome e
adesso hanno staccato in «Dani Jay». Per il resto con «libertà e
spensieratezza» hai centrato esattamente il cuore delle mie canzoni;
divertimento libero, svincolamento dal rigido comportamento. Nel
ballare bisogna tirare fuori il 100% di noi stessi; se c'è un
paletto o un coinvolgimento esterno, il pezzo non lo sviluppo
neanche. Le canzoni nuove hanno un problema: per essere
commercializzate oggi, devono strizzare gli occhi alle tendenze
attuali e devo unire queste due componenti. Con «Explode» ho fatto
proprio così; dall'originale ho tirato fuori qualcosa di credibile
nel 2013 ma anche dotata di feeling personale. In una parola occorre
essere sempre maranza!