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lunedì 1 luglio 2013

DANIJAY: INTERVISTA ITALODANCE

Quanti produttori in ambito italodance possono vantare un impatto sulla scena come Danijay? Pochi, molto pochi. Daniele Zaffiri, questo il suo nome di battesimo, di Genova, classe 1977, ha infiammato le menti di tanti appassionati e messo a ferro e a fuoco molti dancefloor in questi ultimi dieci anni scolpendo il suo nome a chiarissime lettere nella storia di questo genere. Anni di hits ballatissime, anni di rispetto di addetti ai lavori, anni di collaborazioni che contano. Era il 2003 quando una canzone fece il giro di tutta Europa penetrando come un panzer soprattutto il Italia e Spagna. Nasceva «Il gioco dell'amore», che con il featuring di Hellen mieteva proseliti in
ogni dove. Poi «I fiori di lillà», altro fiore all'occhiello, per non parlare di «Luna nera», «Encanto» e tante altre canzoni proprie e remix che consacrarono questo nome come decisivo per la allora nuova ondata della italo. Un'ondata che, crescendo piano piano sulla rinascita del genere nei primi 2000, era destinata, dopo un'ingente impennata iniziale, a infrangersi contro un radicale mutamento del modo di intendere la dance da clubbing. Era il rimontare dei ritmi sincopati e ripetitivi della house, che trovò nella seconda parte dei 2000 piena consacrazione a livello commerciale affossando quel crinale «popolare» che la italo aveva raggiunto sgomitando orgogliosamente anche grazie a Danijay. Il dj decise da un giorno all'altro di appendere la consolle al chiodo, non se ne sentiva parlare più, pareva che quel «gioco d'amore» che aveva intessuto con i fan si fosse inaridito fino alla sclerotizzazione. In realtà la fiammella della passione non si spense per fortuna del tutto e Daniele nel mese di aprile 2013 ha annunciato tramite un portale web nuovo di zecca (www.danijay.com/website) il ritorno.

Con cordialità il nostro non si è sottratto al fuoco incrociato di domande del blog; ci fa sfondo un'accogliente room della discoteca Gioia69 di Milano, in una notte in cui Daniele ha fatto sparare in aria le mani ai presenti con un dj set coinvolgente. L'occasione era ghiotta: il compleanno dell'amico-collega Luca Zeta.

Anzi tutto ben tornato; dopo una lunga assenza il tuo nome ha ricominciato a girare, ricordo bene la mia emozione nel rivedere il tuo profilo facebook ancora vitale e dotato di aggiornamenti. Perché sei tornato sulla scena e come mai l'avevi abbandonata anni fa?
Grazie mille, è un piacere. A un certo punto mi sono accorto che per elevare la qualità del progetto avevo bisogno di tempo; di giorno si lavora e talvolta è dura mettersi alla sera con la testa lucida a finire a testa i pezzi. Comunque: primi mesi del 2009, era appena finito l'album «Plug'n'play», avveniristico, che ha richiesto un anno e mezzo di sviluppo. Era qualcosa di complicatissimo da ideare e concretizzare, doveva essere compatibile con tutti i dispositivi, mantenere il link con l'utente che riceve aggiornamenti con l'artista tramite il computer. Investii tantissimi mesi con la Warner di Milano, che è editrice di tutti i miei brani; il loro direttore voleva mettere in stand by il nome Danijay, mandare avanti il concept «Plug'n'play» e pubblicare in modo simile con Laura Pausini. Arrivammo a pacchetto finito, ma la Warner fece dietro front poiché in un summit mondiale dell'azienda avevano annunciato tagli pesanti. Erano gli albori della ben nota crisi economica e mancavano i fondi per l'investimento; ripresi il nome Danijay e feci uscire lo stesso il «Plug'n'play», che ebbe un richiamo nettamente inferiore. Lo ricordo però con orgoglio perché mi occupai di tutto in prima persona: trenta canzoni, video, interfaccia, confezionamento, publishing, vendita, distribuzione. 1200 prodotti sono stati venduti tutti: sono numeri minimi ma, in proporzione al mercato discografico, cifre grosse. Il tutto mi ha portato a fare una tournée in tutta Europa e dopo ho avvertito un calo di adrenalina; al contempo l'azienda di famiglia mi ha richiamato e le risorse erano molto poche. E poi la musica era diventata inascoltabile, non rispecchiava più il mio gusto e quello che era stata la discoteca fino a quel momento. Le radio operarono da un giorno all'altro un taglio netto dela dance commerciale, un vero suicidio. Noi come discografici italiani eravamo i numeri uno; il mercato si è spostato oggi in nord ed est Europa e noi siamo gli ultimi degli ultimi, non abbiamo attività e ci siamo sparati nelle palle. Con il tempo il sound più melodico è tornato e Luca Zeta è stato fondamentale per il mio ritorno. A parte la laurea in lettere, ha una formazione professionale e culturale di tutto rispetto; due conservatori uno di piano classico e uno di clarinetto, master in America. Con lui si parte da progetti armonici di un certo tipo, il livello si eleverà; sono tornato per restare.
Ammiratori e detrattori devono convergere almeno su un punto: la tua coerenza. Che cosa ti spinge a rimanere fedele alla linea che da sempre ti contraddistingue?
La non dipendenza dall'attività di produttore; chi produce deve prevedere le tendenze, io ho solo messo in atto il mio gusto. E per qualche anno il mio gusto è coinciso con il gusto della gente trainando anche la gente verso di me. Poi il mercato ha sviato bruscamente.
In questi ultimi due anni ho intervistato diversi produttori italodance; è paradossale vedere il talento che emerge nel nostro paese in fatto di italodance e la concomitante freddezza di pubblico e critica. In cosa sbagliano a tuo parere? Cosa ti senti di dir loro?
Non credo sbaglino in qualcosa, hanno però la sfortuna di essere entrati in azione nel momento peggiore degli ultimi trent'anni nel mercato discografico italiano. Anch'io mi rammarico del fatto che, se avessi iniziato la carriera cinque anni prima, sarebbe stata un'altra cosa. Il settore in cui si muovono questi ragazzi è tutto da riseminare e fare rinverdire.
Sii sincero: cosa ne pensi della progressive house? E di producers italiani come Stefano Carparelli o The coolbreezers, che tengono vive le melodie ma con un approccio più al passo con i tempi?
Forse per loro questo genere è l'espressione migliore del loro gusto e vi si trovano in sintonia; io non ho nessun problema a dire che a me non interessa per niente la progressive house. Perché mai dovrei andare dietro a un carrozzone in cui non credo?
Facciamo un passo indietro: dì la verità. Che cosa hai provato quando il tuo «Il gioco dell'amore» dieci anni orsono valicò i confini nazionali imponendosi anche in Spagna e varie classifiche?
Ci ho messo diversi mesi a rendermene conto, forse qualche anno. Ricordo bene quei tempi: suonavo nei locali genovesi, non volevo diventare produttore e avevo canticchiato, al ritorno da una serata in discoteca, una melodia in macchina. Chiesi ai ragazzi della macchina di che pezzo di trattasse, ce l'avevo in testa, l'avevo sentito da qualche parte. Poi l'ho creato e per tre anni fu il disco più ballato nei club; poi me ne impossessai e immaginate l'angoscia quando ho sentito a Discoradio la canzone con un altro nome. Poi, anche grazie a mio zio Alberto Fortis, sono riuscito a ricatturarlo come Danijay.
Tra i tuoi tanti pezzi mi ha sempre incuriosito, oltre ad attrarmi molto, «Ride the way», che facesti con Provenzano dj. Come mai vi buttaste su questo progetto? E che feeling hai nei confronti della dance anni '90?
Quelli sono i mattoni, il sangue della vene; ho tutto e so tutto sulla dance anni '90! Amerigo (Provenzano) un giorno mi chiese una canzone per Haiduchi; quando gli mandai il risultato, mi rispose che potevamo tenerla per noi, tanto era bella. Nacque sulla base dell'altra canzone che feci con questo dj, «Vibe»; con il senno di poi devo dire che quella traccia fu davvero riuscita.
Tra i tanti personaggi del mondo della musica con cui hai collaborato chi ti è rimasto più dentro da un punto di vista umano oltre che artistico?
Ce ne sono tanti, io ho ottimi rapporti con tutti. Provenzano, Roby Rossini e Luca Zeta direi che stanno sul podio. Poi ho grande stima anche per altri come Prezioso, Molella, D'Agostino.
So che questa può non essere una domanda facile. Non sono così addentro al mondo della produzione musicale, ma la mia impressione è che, come in tanti altri settori, anche nel vostro sia preferibile se non necessario conoscere gente in alto per puntare in alto. Ma perché nel nostro Paese non riusciamo a uscire da questa logica clientelare e, diciamolo, a volte mafiosa?
E' semplicissimo: quello che fa girare il mondo sono i soldini e i grossi investimenti mandano avanti tutto. In Italia non ci sono dei limiti di percentuali di passaggi radiofonici fra canzoni italiane e straniere, questo accade ad esempio in Francia. I big mondiali così mettono sul piatto ritorni economici che il nostrano si sogna; se ci fosse un tetto alla musica straniera, noi potremmo giocarcela, ma adesso la nostra concorrenza è impossibile. E' paradossale: in un momento in cui la dance è il genere musicale primo al mondo, c'è la maggiore crisi perché i colossi mondiale ci calpestano.
Che bello ritrovarti con due nuovi lavori, anche se remix, di «Explode» di Roby Rossini e «Let me dance» di D-Boot. Sei sempre tu, con te tue melodie ariose, ampie, celestiali che fanno assaggiare libertà e spensieratezza. Continuerai su questa strada con nuovi pezzi?
Ti fermo però: nel caso di «Let me dance» non sono io, si sono appropriati del mio nome e adesso hanno staccato in «Dani Jay». Per il resto con «libertà e spensieratezza» hai centrato esattamente il cuore delle mie canzoni; divertimento libero, svincolamento dal rigido comportamento. Nel ballare bisogna tirare fuori il 100% di noi stessi; se c'è un paletto o un coinvolgimento esterno, il pezzo non lo sviluppo neanche. Le canzoni nuove hanno un problema: per essere commercializzate oggi, devono strizzare gli occhi alle tendenze attuali e devo unire queste due componenti. Con «Explode» ho fatto proprio così; dall'originale ho tirato fuori qualcosa di credibile nel 2013 ma anche dotata di feeling personale. In una parola occorre essere sempre maranza!