E' la prima volta che il nostro blog
ospita un produttore cinematografico: ne sono passati su queste rune
digitali di personaggi, artisti, mestieranti o meno di questa o
quella declinazione creativa. Ma un produttore, ovvero chi cura la
parte manageriale e logistica dietro a un film, ancora no. L'ospite
di oggi passa dalla porta principale poiché non solo si è posto al
nostro fuoco incrociato di domande con gentilezza, ma ha approfondito
con dovizia di riferimenti ogni aspetto della settima arte con
ammirevole polso ed entusiasmo. Con un valore aggiunto non da poco:
Edoardo Di Silvestri, questo il suo nome, ha scelto di operare e
professionalizzarsi là... Dove osano le aquile... Insomma
direttamente a Los Angeles,
dove di cinema si vive. Data la caratura
dei suoi ragionamenti e il coraggio dimostrato a rischiare così
tanto, non possiamo che augurargli che quegli «angeli» della sua
attuale città di residenza lo accompagnino nel suo sogno.
E' affascinante il paradosso fra la tua
formazione scientifica (il liceo e la laurea in economia e commercio)
e la tua scelta attuale. Da un lato la realtà confinata in
coordinate oggettive e empiricamente verificabili, dall'altro la
realtà scardinata da fantasia, sogno e unicità di chi la
interpreta. Come ti senti in questo percorso?
Visti da fuori, sembrano due mondi
inconciliabili; invece considero la mia formazione scientifica
estremamente importante per lo sviluppo di quello che ho fatto e sto
facendo ora. A un certo punto ho sentito l'esigenza di cambiare
pagina, ma l'impostazione manageriale ben si sposa con la macchina
cinematografica in cui sono inserito adesso. Ogni pulsione creativa
non può prescindere da un controllo delle risorse e lo studio
economico mi ha dato padronanza di linguaggio, dinamiche
imprenditoriali, conteggi, statistiche. Io mi ci sento a mio agio in
questa dualità.
I nomi altisonanti del cinema non ti
mancano quanto a collaborazioni: Piccioli, Berardi, Proietti,
Piovani. Cosa ti hanno lasciato a livello professionale e umano?
Mauro Berardi rappresenta l'inizio di
tutto, con lui feci il primo film a cui ho preso parte con Alessandro
Siani ed Elisabetta Canalis. Grazie a questa collaborazione ho avuto
il piacere di incontrare Gianfranco Piccioli con il quale ho avuto
diverse collaborazioni e un rapporto lavorativo più o meno stabile.
Piccioli è per me un maestro, la persona che mi ha insegnato di più
o quasi tutto sul come produrre un film, mi ha dato fiducia e piano
piano trasferito anche delle responsabilità durante le produzioni
dei vari progetti in cui abbiamo collaborato, dandomi la possibilità
di occuparmi operativamente della produzione esecutiva sotto il suo
coordinamento. Di lui mi piace la curiosità, la capacità di essere
sempre aperto a nuovi progetti e nuovi autori, lo dimostra il fatto
che ha prodotto davvero un numero considerevole di opere prime.
Un altro personaggio a cui sono legato
è sicuramente Vincenzo Cerami, che abbi la fortuna di incontrare nel
2009 casualmente per discutere una mia idea per un progetto teatrale
che non ha ancora visto luce ma che non ho affatto abbandonato. In
quella circostanza rimasi davvero colpito dalla disponibilità di un
maestro come lui ad ascoltare le mie idee e a prendere seriamente in
considerazione il mio progetto. Mi diede molti consigli su come
migliorarlo e di credere in me, nel percorso fatto e di non mollare.
Il caso ha voluto che esattamente un anno dopo ci siamo ritrovati a
lavorare sul film «Tutti al Mare» diretto da suo figlio Matteo
insieme al quale ha scritto la sceneggiatura. Ed è stato bello
ritrovarlo e scoprire che di ricordava benissimo del nostro incontro
precedente. Chiaramente ti lascio immaginare l'onore provato oltre a
quello di lavorare su un film scritto da lui. Di Proietti posso dire
solamente che é un maestro e quando lui é in scena che sia a teatro
o davanti a una macchina da presa é e resta un gigante
Quale finora delle produzioni cui hai
partecipato ti ha colpito e soddisfatto di più?
Sicuramente un lavoro molto ambizioso
dal titolo «All human rights for all», formato da 30 cortometraggi
diretti da altrettanti registi e corrispondenti ai 30 articoli della
dichiarazione sui diritti dell'uomo. Un progetto meraviglioso che mi
spiace non abbia goduto del necessario seguito; Rai ha mostrato
alcuni dei corti, ma non tutto il film nella sua interezza. In realtà
a mio avviso è una produzione che si può gustare tutta d'un fiato
perché si rifà a diversi sapori. Sono orgoglioso di averci lavorato
e di avere avuto voce in capitolo diretta in alcuni dei suoi
frammenti: E stata anche la prima regia di Giobbe Covatta, ricordo
anche un poi di ansia da prestazione ma tutto andò per il meglio.
Mi ritengo fortunato di interloquire
con un italiano andato in America per inseguire un sogno. Perché
proprio gli US e come ti sembrano per ora rispetto all'Italia in
fatto di cinema?
Come molti che vogliono fare questo
mestiere, vedevo l'America come una terra ricca di opportunità in
tal senso. E in effetti non si tratta solo di un pregiudizio, qui c'è
davvero maggiore possibilità di emergere da parte di un giovane. Si
ha l'impressione, in fondo sono a Los Angeles solo da un paio di
mesi, che ci sia più spazio per tutti e soprattutto che, almeno in
questa grande città, la maggior parte dei suoi abitanti sia
impegnata professionalmente nel cinema. Infine, cosa da non
sottovalutare, l'America ha deciso di investire economicamente
massicce risorse nel cinema, di farci un business e sia detto nel
senso buono del termine. Un film, per quanto fatto con amore e
ragionevolezza, è pur sempre un prodotto commerciale e non dobbiamo
avere paura di usare questo aggettivo. Ecco che allora registi che in
Italia non avrebbero futuro e probabilmente non partirebbero neanche
perdendosi in un oblio di critica e pubblico, qui si ritagliano
almeno una nicchia.
E da un punto di vista umano cosa ti
stanno lasciando questi primi scampoli di esperienza?
Tieni conto che sono partito per gli US
senza conoscere nessuno in loco e avere un lavoro; anzi adesso sto
cercando lavoro. Come vedi, ho rischiato, ci sto credendo; lo faccio
perché considero che voglio fare questo lavoro più di ogni altra
cosa al mondo e devo essere qua per avere tutte le chances.
Ovviamente non posso sapere come andrà a finire; ma, anche nella
peggiore delle ipotesi, me ne tornerò in Italia arricchito e
provvisto di un bagaglio molto maggiore. Italia o un altro Paese al
mondo, non è detto che avrò smesso di viaggiare! Una cosa te la
posso dire: qui hanno rispetto di noi, amano gli italiani, conoscono
bene la cultura artistica e la creatività che ci portiamo dietro. E
comunque non sono venuto per tagliare i ponti con il passato, anzi
voglio aprirmi a lavori con l'Italia continuando le attività con il
mio Stato di origine.
In Italia fare produzione è cambiato
molto negli ultimi anni; come guardi al nostro settore produttivo da
là?
Sono cambiati molto i tempi almeno da
10 anni se non15. La questione da noi non è solo che non si è
implementata quella macchina manageriale che ti dicevo prima; la
radice va ricercata nella mentalità, è squisitamente culturale.
Latita quel coraggio, quella voglia di rischiare che è fondamentale
per far progredire la scena e il commercio stesso. Quando i nostri
produttori trovano un format, lo portano avanti, sanno che gira e
funziona, il che però penalizza tutti i registi che non vi
rientrano. Io invece vorrei che uno come De Laurentis, che pure stimo
tanto, o anche produttori di livelli inferiori, fossero più inclini
a uscire dai soliti canoni, dessero spazio non solo agli stessi nomi,
rifuggissero la ripetitività. Quest'ultima uccide la creatività del
nostro cinema! Non è possibile che da noi ci siano registi emergenti
a 40 anni. Un regista bravissimo come Ivano De Matteo mi sembra
assurdo che, dopo vari film di quel livello, non stia riuscendo a
sfondare. Io, potessi, lo chiamerei domani.
Perché oggi in Italia, quanto almeno a
livello commerciale, non si possono più fare commedie intelligenti
in grado di mostrare pregi e difetti dell'italiano medio? Non è che
non riusciamo a scrollarci di dosso il preconcetto che il cinema
popolare è di serie B?
La nostra commedia ha fiorito per
decenni fino, diciamo, agli anni '80, dopo i quali l'appiattimento ha
livellato verso il basso le produzioni. Forse allora quei film non
dicevano nulla, erano svalutati, oggi si riprendono in mano e si
comprende la loro efficacia. Insomma, se oggi mi vedo una buona
commedia del maestro Monicelli, riesco a farmi un'idea abbastanza
precisa dell'italiano medio dell'epoca. Rido, ma rifletto e questo
binomio è qualcosa di meravigliosamente magico. E poi... Serie B...
Torniamo alla concezione di «commerciale»: in America hanno capito
che ogni film deve per forza essere commerciale, altrimenti quale
produttore investirebbe sul tuo lavoro? Dobbiamo tornare a capire che
si può «fare commercio» anche in modo intelligente, volendo bene a
una storia, facendo recitare in modo adeguato un cast. Non ci
spaventi il vocabolo «prodotto», la cui radice è attinente a
«produzione».
Cosa ti senti di dire a quei giovani
registi che, anche a fronte di una o più opere prime di valore e che
magari hanno vinto anche premi, gettano la spugna sconfitti
dall'indifferenza generale?
Un conto sono i registi underground, i
così detti indipendenti e un conto chi è già arrivato a una o più
produzioni. Per i primi credo ci sia un problema di identificazione
di ruolo: premettendo che sono assolutamente a favore dei film low
budget e simpatizzo per quanti ci provano, non so quanto sia
produttivo ritenersi fuori dal sistema, contrari, trovando
preconcetti con persone che invece nel sistema già ci lavorano. A me
è capitato di avere a che fare con alcuni di loro e, sebbene li
apprezzassi su certi versanti, li univa quella rabbia. Ricordo, e su
questo punto molto l'accento, che in Italia esiste una legge per cui
un film deve godere di un finanziamento di almeno 1 milione e mezzo
di euro. Sotto questo tetto è molto probabile non vengano rispettate
le paghe e i requisiti contrattuali dei lavoratori. Questo dato è
molto importante! Si può anche decidere, se si ha una bella storia e
si trovano fondi sufficienti, di realizzare comunque; ma si conosca
questo parametro e se ne capisca il valore. Il discorso è il
medesimo anche sulle proteste che alcuni fanno sul tetto che il
Ministero richiede per elargire finanziamenti a un film, 21 mila
euro. Che male c'è che da Roma si tutelino?
Per quanto riguarda i registi che già
sono arrivati al lungo... Non invidio la loro posizione, essere
registi in Italia può dare parecchia frustrazione. Dico loro che è
un autentico peccato mollare, che ci devono credere tantissimo, che
devono avere però anche l'umiltà di cambiare il sistema
dall'interno e non solo rinchiudersi nell'autorialità. Una via è
anche quella di non essere statici, di viaggiare e di assaggiare una
cultura e un tipo di lavorazione diversa. Quindi, se ne abbiamo la
possibilità, accumuliamo più esperienza possibili, che fanno
crescere a dismisura tecnicamente e umanamente.
Spiegami come ti poni davanti a un
nuovo prodotto che ti viene sottoposto. Quali requisiti deve avere
per piacerti e per eventualmente dargli una chance?
All'inizio effettuo una lettura molto
veloce della sceneggiatura, cercando di pormi nella prospettiva del
pubblico. Poi rileggo con molta più attenzione scovando i limiti; è
decisivo isolare quelli che a mio avviso sono carenze, tutto è
migliorabile e forse l'autore, essendo coinvolto in prima persona,
non ha la lucidità di capirle. Questo aspetto è assai delicato, e
arriviamo alla terza fase, quella in cui discuto con lui di queste
cose che non funzionano. Lo faccio, è bene specificarlo, senza
imporre nulla e senza trovare una soluzione; occorre trovare invece
dei punti in comune rispettandosi a vicenda e far collimare la mia
prospettiva, quella imprenditoriale, con la sua che è prettamente
artistica. Da lì poi nasce la sceneggiatura e via via tutti gli
aspetti per completare il progetto. La scelta delle locations, il
cast, il packaging e i primi contatti per sondare il terreno e
accaparrarsi dei finanziamenti.
In generale qual'è lo stile artistico
per cui, una volta famosissimo (te lo auguro di cuore), a fine
carriera vorresti essere identificato?
Se ti devo dire uno stile, ti dico
thriller con venature gotiche, ma come spettatore. Preferirei essere
ricordato come un produttore in grado di sperimentare, di concedere
spazio ad artisti di talento ma con difficoltà di espressione, di
uno che ha dato possibilità e si è dato possibilità di rischiare
con coraggio. Questo è il mio modo di concepire questo lavoro, con
dinamismo, rifuggendo una stanca figura di produttore che, ottenuta
la riconoscibilità, si arena su quella strada e muore lì.
Cosa bolle in pentola nella tua agenda
dei prossimi mesi?
Al momento sto lavorando come esecutivo
allo sviluppo di un film dal titolo «Orlando e Liviatani» per la
regia di Riccardo Papa. Si tratta della sua opera prima, un film noir
con elementi di commedia. Per questo progetto abbiamo pensato di
mettere in atto un'articolazione trans-mediale dello stesso, e mi
spiego meglio, volendo utilizzare anche i new media il progetto
prenderà forme e contenuti diversi a seconda del media utilizzato.
Mi rendo conto che per il mercato italiano tutto questo può sembrare
nuovo ma non lo è di certo per il resto del mondo. E' vero che si
tratta di un film italiano che sarà diretto da un regista italiano
in cui credo molto, ma la storia di per se ha un sapore
internazionale e stiamo cercando di aprire la possibilità a
collaborazioni straniere sia in termini produttivi che a livello di
cast... Ma non farmi dire altro, perché al momento siamo in una fase
di sviluppo in working- progress.