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domenica 20 ottobre 2013

TECHNOBOY: INTERVISTA

Chissà se la storia è davvero «maestra di vita» come sostenevano i latini. Di certo il passato propone/impone frammenti di cultura, uomini e, perché no, sentimenti che, soverchiando la schiavitù del tempo, rimangono incastonati nelle pieghe di ricordi e avvenimenti. Per un appassionato di musica hardstyle forse solo una diagnosi di sofferenza psichica orienterebbe qualcuno a non riconoscere in Technoboy uno dei prime mover della scena e un artista in grado, singolo dopo singolo e serata dopo serata, di scolpire a fuoco il proprio nome nelle pagine della storia, appunto. Promotore di uno stile personale e capace di ergersi dalla massa, Cristiano, questo il suo nome di
battesimo, affianca altri altisonanti nomi come Tatanka, Zatox o Activator nell'esportare l'hardstyle made in Italy in Europa e nel mondo. Quando sembra che questo Paese sia ridotto a un colabrodo in moltissimi suoi ambiti, occorre ammettere con entusiasmo che il prodotto «doc» verde/bianco/rosso in fatto di musica hard viene smerciato a piene mani anche a grazie a Technoboy.
Lo abbiamo incontrato in tarda notte allo Spazio A4 per l'inaugurazione della stagione dell'organizzazione Insound con l'evento "Back in the space". Come sempre, il dj set appena suonato è il «pretesto» per muoversi dialetticamente in lungo e in largo su vari universi. A ennesima dimostrazione, giusto per sedare le tante Cassandre che amano riempirsi la bocca di quello che non conoscono, che questo mondo della notte non è poi così malvagio e che «tirosi» e superbi in territorio hardstyle e hardcore se ne vedono ben pochi.
Viaggiamo dunque con Technoboy, leggetene tutti.

Ho letto che in tenera età ti dilettavi ad ascoltare mostri sacri del rock come Genesis e Police; non è da tutti iniziare con quel livello di eccellenza e, partendo dagli strumenti «in carne ed ossa», avvicinarsi poi a quelli elettronici.
Chi è portato per questo lavoro, lo dimostra fin dall'inizio della vita; è proprio una questione di sentire ritmicamente la vita stessa, io probabilmente ero di natura indotto alla parte percussiva e a scuola per quattro anni ho studiato batteria. Questo ha contribuito al mio sviluppo nel fare il dj; il disc jockey per definizione non può prescindere dal ritmo e sono convinto che anche nella composizione dei pezzi quell'impostazione sia stata fondamentale.

Nella tua bio si legge che a Bologna, nella tua prima volta in discoteca da fan, sei rimasto incantato e avresti voluto essere tu quel tale che dettava il movimento dietro ai dischi. Cosa ricordi di quegli esordi e quegli entusiasmi?
Non ci volevo assolutamente andare: ero introverso, timido, insicuro e quindi mi sentivo in difficoltà in posti con tanta gente, li evitavo in tutti i modi. Per il mio diciassettesimo compleanno uno dei miei migliori amici dell'epoca mi obbligò, visto che era anche il suo di compleanno, ad andare a Bologna una domenica pomeriggio in uno dei maggiori locali allora. Una volta sugli scalini, aspettando di essere ammessi all'entrata, ancora recalcitrante fino alla fine, sentendo la musica dai sub woofer dall'interno, il rapimento cominciò. Entrando nel locale, hai presente l'amore a prima vista? Ecco, qualcosa di simile è accaduto a me.

Hai passato più di una decade a produrre musica dopo un passato di clubbing; come si riesce a stare al passo con i tempi senza correre il rischio di proporre melodie anacronistiche e rinverdire il proprio estro compositivo?
C'è un video, un articolo inglese, non ricordo con esattezza, che dice «Everything is remix»: bene o male tutto ritorna, è riconducibile a qualcos'altro. Inventare qualcosa di totalmente innovativo o partire da zero, è quasi un miracolo; si ricade in qualcosa di già presente, già sentito sotto altra forma e arrangiamento. Tutti quanti prendono ispirazione, compresi i grandissimi musicisti e questo si estende a tutti gli ambiti rock compreso. Si trae spunto da altri e poi si personalizza a seconda del proprio gusto.

Ho notato negli ultimi 2-3 anni un incremento di produzioni sotto il nome Technoboy e gli altri aliases che ti accompagnano. Questa accelerazione si deve a una maturazione artistica consolidata o è casuale?
Nei primi tempi di produzione fare hardstyle era una cosa molto semplice; avevamo necessità di trovare dei nickname, dei soprannomi diversi per non fare uscire tutte le settimane un prodotto a nome Technoboy. Lo studio era sempre quello così come il team di lavoro e, siccome si riusciva a fare musica di qualità in tempi relativamente brevi, occorreva questa impostazione. Quando hai l'ispirazione, la traccia spesso in due giorni è sviluppata a dovere; non c'è un planning in senso di realease, è tutto dettato dal carpe diem, dipende da quanto sei prolifico in quel momento. Magari per un mese non ti esce nulla, poi il mese dopo in due settimane hai lì tre canzoni.

Tra le tue tante canzoni sono rimasto molto colpito da «Involved», nel cui tocco si synths personalmente risento la passione della vecchia guardia per certi sapori progressive per poi trasformarsi quasi in hard trance. Cosa puoi dirmi di questo pezzo?
Il pezzo è stato creato per i progetto che ho tentato nel 2012 per portare alla ribalta ragazzi che difficilmente avrebbero avuto da soli la possibilità di esibirsi davanti a un grande pubblico. Mi serviva qualcosa che fungesse da anthem, inno, punto di riferimento; come tu hai giustamente detto, sono un grandissimo amante delle sonorità degli anni '90 soprattutto techno-trance e progressive. Così voluto ripercorrere le mie roots, le mie origini che partono da lì traformandole in qualcosa di credibile per i tempi che corrono. Credo ne sia uscito qualcosa di particolarmente funzionante.

Un altro tuo episodio che mi colpisce molto è la rivisitazione di «Ti sento» dei Matia Bazar, che a suo modo avevano ripreso anche gli Scooter. Come ti è venuto l'idea?
Mi arrogo il diritto di dire che ci ho pensato prima io di riprendere questa canzone dei Matia bazar, prima di Scooter di certo. E' uno dei brani più belli del 1985, per me uno dei mattoni della mia adolescenza, mi ha fatto capire che qualcosa di determinante in me stava crescendo come dj; Technoboy nacque seriamente anche grazie ai Matia bazar. Scooter ha avuto un'idea basata su una mia stessa idea; loro sono famosissimi ma più commerciali di me e non mi piace come hanno concepito la traccia, ma ho amato ovviamente la mia versione e quella del new comer olandese Waverider nel 2012. La mia è orientata ai club, lunga e rispettosa dei tempi tecnici e fisici per farla apprezzare; lo stesso fu per i Matia Bazar. Scooter ha scelto il suo solito minutaggio di 3-4 minuti, il che ha penalizzato il messaggio.

In una vecchia intervista datata 2009 ti dicevi scontento della scena hardstyle italiana, allora «inesistente». Ritieni che con la commercializzazione del genere vissuto negli ultimi anni la situazione sia cambiata?
In realtà da noi la commercializzazione sta subendo una fase all'opposto, nel senso che vengono privilegiati artisti stranieri che propongono generi estremi rispetto a produttori italiani che mettono d'accordo la pista di qualsiasi locale. Tra il 2013-2014 vedremo i risultati e se il team italiano si rivelerà vincente nei club nostrani; io penso che la risposta sia sì, in quanto noi sappiamo cosa piace agli italiani nonostante le tendenze rimandano a qualcos'altro. Lo dico senza presunzione ma in modo naturale.

Tatanka nell'intervista che gli feci mesi fa mi disse che occorre, per rivitalizzare il genere, che ciascuno metta la sua sensibilità personale nelle produzioni. Ovvio che questo appartiene solo ai grandi che emergono dalla massa. Sei d'accordo? E, se sì, cosa di tuo inserisci in quello che dai alla luce?
E' una questione soggettiva: Valerio (Tatanka) ha un suo modo di vedere la musica e a suo avviso uno strumento etnico può determinare la particolarità del brano. Fa benissimo a fare così ed è altrettanto vero che sono tanti i fattori che determinano il successo di una canzone. Alle orecchie dei ragazzini che poi sentono la traccia quello che pensa Valerio non passa nemmeno, però è bello l'opposto: lui la produce in quel modo ma la gente decide e comunque balla. In questo senso funziona! Non ci sono storie, questo è il fine di tutti noi: fare ballare le persone e, in qualunque modo tu ci riesca, hai sempre vinto.

Non ti conosco bene, ma mi dai l'idea di essere una persona alquanto aperta e lontano dagli stereotipi; come si può ritagliarsi un proprio posto in una società, quella attuale, in cui molti finiscono per essere conformisti a dispetto di molte possibilità di scelta?
Dimostrare qualcosa presuppone che tu ti senta forte: alcune cose che io ho fatto sono figlie del fatto che ero presente sulla scena da tempo. La sicurezza in te è fondamentale, ti porta a sperimentare in modo anticonformista; amato da alcuni e abbandonato da altri, ma tutto fa parte della progressione personale e non può succedere agli esordienti.

Sei passato, come il sottoscritto, dai cambiamenti che l'informatizzazione massiva ha imposto a tutti noi; dalla comunicazione più calda e carnale di 15 anni fa a quella più asettica e polimorfa dei tempi attuali. Come ti ci trovi?
Mi ci trovo per forza di cose, bisogna adeguarsi indipendentemente dal proprio pensiero; è una forma comunicativa che si diversifica di anno in anno e ti devi adattare, se non lo fai è meglio che cambi mestiere. L'artista non può arroccarsi su qualcosa che non esiste più, bisogno essere al passo con i tempi, pena l'esclusione e la morte professionale. Poca nostalgia dunque e guardiamo sempre avanti.

Se tu fossi un pittore o comunque un artista, con quale immagine o forma rappresenteresti la sensazione che ti anima all'interno quando centinaia o migliaia di persone ballano con la tua musica?
Una delle cose più belle che mi sia capitato di vedere sono i tramonti della Grecia; gli inglesi direbbero che sono «breath taking», qualcosa che toglie il respiro. Ascoltare qualsiasi tipo di musica in quei contesti per me è stata la chiave di svolta per fare tanta musica del mio repertorio dal 2009. Sono amante della montagna ma anche del mare; ascoltare in particolare musica anni '80 davanti a un tramonto greco è qualcosa che riempie l'anima. Per me poi gli anni '80 sono la decade migliore in assoluto, lì ci sono gli assi portanti di tutto quello che è stato ripreso in seguito e ancora oggi ascolto quei sapori con grande passione.

Quali sono le critiche maggiori che rivolgi agli organizzatori di serate hardstyle e al pubblico?
Il nostro genere richiede determinati standard, per cui non si può fare in un locale che di norma propone musica diversa, più soft o ha un ambiente in cui il fan medio non ci si riconosce. Occorre essere bravi nel dare quel qualcosa in più alla gente e calamitarla; la critica che quindi mi sento di fare un po' a tutti è l'impianto audio. Non si può fare hardstyle con un impianto in cui la sera prima hanno fatto hip-hop o house; per noi ci vuole un supporto tecnico adeguato e qualcuno che lavori in funzione della serata. In Italia questo non sempre accade! Per fortuna l'esperienza di anni ci ha insegnato che i primi dieci minuti vengono sondati passando oltre a quello che si vuole fare artisticamente ma concentrandosi sull'adattamento al sound system dell'impianto.