Chissà se la storia è davvero
«maestra di vita» come sostenevano i latini. Di certo il passato
propone/impone frammenti di cultura, uomini e, perché no, sentimenti
che, soverchiando la schiavitù del tempo, rimangono incastonati
nelle pieghe di ricordi e avvenimenti. Per un appassionato di musica
hardstyle forse solo una diagnosi di sofferenza psichica orienterebbe
qualcuno a non riconoscere in Technoboy uno dei prime mover della
scena e un artista in grado, singolo dopo singolo e serata dopo
serata, di scolpire a fuoco il proprio nome nelle pagine della
storia, appunto. Promotore di uno stile personale e capace di ergersi
dalla massa, Cristiano, questo il suo nome di
battesimo, affianca
altri altisonanti nomi come Tatanka, Zatox o Activator nell'esportare
l'hardstyle made in Italy in Europa e nel mondo. Quando sembra che
questo Paese sia ridotto a un colabrodo in moltissimi suoi ambiti,
occorre ammettere con entusiasmo che il prodotto «doc»
verde/bianco/rosso in fatto di musica hard viene smerciato a piene
mani anche a grazie a Technoboy.
Lo abbiamo incontrato in tarda notte
allo Spazio A4 per l'inaugurazione della stagione dell'organizzazione
Insound con l'evento "Back in the space". Come sempre, il dj set appena suonato è il «pretesto» per
muoversi dialetticamente in lungo e in largo su vari universi. A
ennesima dimostrazione, giusto per sedare le tante Cassandre che
amano riempirsi la bocca di quello che non conoscono, che questo
mondo della notte non è poi così malvagio e che «tirosi» e
superbi in territorio hardstyle e hardcore se ne vedono ben pochi.
Viaggiamo dunque con Technoboy,
leggetene tutti.
Ho letto che in tenera età
ti dilettavi ad ascoltare mostri sacri del rock come Genesis e
Police; non è da tutti iniziare con quel livello di eccellenza e,
partendo dagli strumenti «in carne ed ossa», avvicinarsi poi a
quelli elettronici.
Chi è portato per questo
lavoro, lo dimostra fin dall'inizio della vita; è proprio una
questione di sentire ritmicamente la vita stessa, io probabilmente
ero di natura indotto alla parte percussiva e a scuola per quattro
anni ho studiato batteria. Questo ha contribuito al mio sviluppo nel
fare il dj; il disc jockey per definizione non può prescindere dal
ritmo e sono convinto che anche nella composizione dei pezzi
quell'impostazione sia stata fondamentale.
Nella
tua bio si legge che a Bologna, nella tua prima volta in discoteca da
fan, sei rimasto incantato e avresti voluto essere tu quel tale che
dettava il movimento dietro ai dischi. Cosa ricordi di quegli esordi
e quegli entusiasmi?
Non ci
volevo assolutamente andare: ero introverso, timido, insicuro e
quindi mi sentivo in difficoltà in posti con tanta gente, li
evitavo in tutti i modi. Per il mio diciassettesimo compleanno uno
dei miei migliori amici dell'epoca mi obbligò, visto che era anche
il suo di compleanno, ad andare a Bologna una domenica pomeriggio in
uno dei maggiori locali allora. Una volta sugli scalini, aspettando
di essere ammessi all'entrata, ancora recalcitrante fino alla fine,
sentendo la musica dai sub woofer dall'interno, il rapimento
cominciò. Entrando nel locale, hai presente l'amore a prima vista?
Ecco, qualcosa di simile è accaduto a me.
Hai
passato più di una decade a produrre musica dopo un passato di
clubbing; come si riesce a stare al passo con i tempi senza correre
il rischio di proporre melodie anacronistiche e rinverdire il proprio
estro compositivo?
C'è
un video, un articolo inglese, non ricordo con esattezza, che dice
«Everything is remix»: bene o male tutto ritorna, è riconducibile
a qualcos'altro. Inventare qualcosa di totalmente innovativo o
partire da zero, è quasi un miracolo; si ricade in qualcosa di già
presente, già sentito sotto altra forma e arrangiamento. Tutti
quanti prendono ispirazione, compresi i grandissimi musicisti e
questo si estende a tutti gli ambiti rock compreso. Si trae spunto da
altri e poi si personalizza a seconda del proprio gusto.
Ho
notato negli ultimi 2-3 anni un incremento di produzioni sotto il
nome Technoboy e gli altri aliases che ti accompagnano. Questa
accelerazione si deve a una maturazione artistica consolidata o è
casuale?
Nei
primi tempi di produzione fare hardstyle era una cosa molto semplice;
avevamo necessità di trovare dei nickname, dei soprannomi diversi
per non fare uscire tutte le settimane un prodotto a nome Technoboy.
Lo studio era sempre quello così come il team di lavoro e, siccome
si riusciva a fare musica di qualità in tempi relativamente brevi,
occorreva questa impostazione. Quando hai l'ispirazione, la traccia
spesso in due giorni è sviluppata a dovere; non c'è un planning in
senso di realease, è tutto dettato dal carpe diem, dipende da quanto
sei prolifico in quel momento. Magari per un mese non ti esce nulla,
poi il mese dopo in due settimane hai lì tre canzoni.
Tra le
tue tante canzoni sono rimasto molto colpito da «Involved», nel cui
tocco si synths personalmente risento la passione della vecchia
guardia per certi sapori progressive per poi trasformarsi quasi in
hard trance. Cosa puoi dirmi di questo pezzo?
Il
pezzo è stato creato per i progetto che ho tentato nel 2012 per
portare alla ribalta ragazzi che difficilmente avrebbero avuto da
soli la possibilità di esibirsi davanti a un grande pubblico. Mi
serviva qualcosa che fungesse da anthem, inno, punto di riferimento;
come tu hai giustamente detto, sono un grandissimo amante delle
sonorità degli anni '90 soprattutto techno-trance e progressive.
Così voluto ripercorrere le mie roots, le mie origini che partono da
lì traformandole in qualcosa di credibile per i tempi che corrono.
Credo ne sia uscito qualcosa di particolarmente funzionante.
Un
altro tuo episodio che mi colpisce molto è la rivisitazione di «Ti
sento» dei Matia Bazar, che a suo modo avevano ripreso anche gli
Scooter. Come ti è venuto l'idea?
Mi
arrogo il diritto di dire che ci ho pensato prima io di riprendere
questa canzone dei Matia bazar, prima di Scooter di certo. E' uno dei
brani più belli del 1985, per me uno dei mattoni della mia
adolescenza, mi ha fatto capire che qualcosa di
determinante in me stava crescendo come dj; Technoboy nacque seriamente anche grazie ai
Matia bazar. Scooter ha avuto un'idea basata su una mia stessa idea;
loro sono famosissimi ma più commerciali di me e non mi piace come
hanno concepito la traccia, ma ho amato ovviamente la mia versione e quella del
new comer olandese Waverider nel 2012. La mia è orientata ai club, lunga e rispettosa dei tempi tecnici e fisici per
farla apprezzare; lo stesso fu per i Matia Bazar. Scooter ha scelto
il suo solito minutaggio di 3-4 minuti, il che ha penalizzato il
messaggio.
In una
vecchia intervista datata 2009 ti dicevi scontento della scena
hardstyle italiana, allora «inesistente». Ritieni che con la
commercializzazione del genere vissuto negli ultimi anni la
situazione sia cambiata?
In
realtà da noi la commercializzazione sta subendo una fase
all'opposto, nel senso che vengono privilegiati artisti stranieri che
propongono generi estremi rispetto a produttori italiani che mettono
d'accordo la pista di qualsiasi locale. Tra il 2013-2014 vedremo i
risultati e se il team italiano si rivelerà vincente nei club
nostrani; io penso che la risposta sia sì, in quanto noi sappiamo
cosa piace agli italiani nonostante le tendenze rimandano a
qualcos'altro. Lo dico senza presunzione ma in modo naturale.
Tatanka
nell'intervista che gli feci mesi fa mi disse che occorre, per
rivitalizzare il genere, che ciascuno metta la sua sensibilità
personale nelle produzioni. Ovvio che questo appartiene solo ai
grandi che emergono dalla massa. Sei d'accordo? E, se sì, cosa di
tuo inserisci in quello che dai alla luce?
E' una
questione soggettiva: Valerio (Tatanka) ha un suo modo di vedere la
musica e a suo avviso uno strumento etnico può determinare la
particolarità del brano. Fa benissimo a fare così ed è altrettanto
vero che sono tanti i fattori che determinano il successo di una
canzone. Alle orecchie dei ragazzini che poi sentono la traccia
quello che pensa Valerio non passa nemmeno, però è bello l'opposto:
lui la produce in quel modo ma la gente decide e comunque balla. In
questo senso funziona! Non ci sono storie, questo è il fine di tutti
noi: fare ballare le persone e, in qualunque modo tu ci riesca, hai
sempre vinto.
Non ti
conosco bene, ma mi dai l'idea di essere una persona alquanto aperta
e lontano dagli stereotipi; come si può ritagliarsi un proprio posto
in una società, quella attuale, in cui molti finiscono per essere
conformisti a dispetto di molte possibilità di scelta?
Dimostrare
qualcosa presuppone che tu ti senta forte: alcune cose che io ho
fatto sono figlie del fatto che ero presente sulla scena da tempo. La
sicurezza in te è fondamentale, ti porta a sperimentare in modo
anticonformista; amato da alcuni e abbandonato da altri, ma tutto fa
parte della progressione personale e non può succedere agli
esordienti.
Sei passato, come il
sottoscritto, dai cambiamenti che l'informatizzazione massiva ha
imposto a tutti noi; dalla comunicazione più calda e carnale di 15
anni fa a quella più asettica e polimorfa dei tempi attuali. Come ti
ci trovi?
Mi ci trovo per forza di
cose, bisogna adeguarsi indipendentemente dal proprio pensiero; è
una forma comunicativa che si diversifica di anno in anno e ti devi
adattare, se non lo fai è meglio che cambi mestiere. L'artista non
può arroccarsi su qualcosa che non esiste più, bisogno essere al
passo con i tempi, pena l'esclusione e la morte professionale. Poca
nostalgia dunque e guardiamo sempre avanti.
Se tu
fossi un pittore o comunque un artista, con quale immagine o forma
rappresenteresti la sensazione che ti anima all'interno quando
centinaia o migliaia di persone ballano con la tua musica?
Una
delle cose più belle che mi sia capitato di vedere sono i tramonti
della Grecia; gli inglesi direbbero che sono «breath taking»,
qualcosa che toglie il respiro. Ascoltare qualsiasi tipo di musica in
quei contesti per me è stata la chiave di svolta per fare tanta
musica del mio repertorio dal 2009. Sono amante della montagna ma
anche del mare; ascoltare in particolare musica anni '80 davanti a un
tramonto greco è qualcosa che riempie l'anima. Per me poi gli anni
'80 sono la decade migliore in assoluto, lì ci sono gli assi
portanti di tutto quello che è stato ripreso in seguito e ancora
oggi ascolto quei sapori con grande passione.
Quali sono le critiche
maggiori che rivolgi agli organizzatori di serate hardstyle e al
pubblico?
Il nostro genere richiede
determinati standard, per cui non si può fare in un locale che di
norma propone musica diversa, più soft o ha un ambiente in cui il
fan medio non ci si riconosce. Occorre essere bravi nel dare quel
qualcosa in più alla gente e calamitarla; la critica che quindi mi
sento di fare un po' a tutti è l'impianto audio. Non si può fare
hardstyle con un impianto in cui la sera prima hanno fatto hip-hop o
house; per noi ci vuole un supporto tecnico adeguato e qualcuno che
lavori in funzione della serata. In Italia questo non sempre accade!
Per fortuna l'esperienza di anni ci ha insegnato che i primi dieci
minuti vengono sondati passando oltre a quello che si vuole fare
artisticamente ma concentrandosi sull'adattamento al sound system
dell'impianto.