Sarebbe interessante domandare in questo momento storico a
cento persone cosa si intende per “comparaggio”. A naso neanche un quinto
saprebbe enunciare con esattezza di cosa trattasi e io stesso, benché
conoscessi alla grossa gli intrallazzi di cui parla il film in oggetto, non li
legavo a tale vocabolo.
L’indotto illegale intorno alla sanità, il lucro sulle
spalle dei malati, i cadeaux elargiti ai medici soprattutto di base per far “girare”
il più possibile questo o quel farmaco. Di questo e di una storia umana a ciò
connesso
parla l’ultimo film del regista Antonio Morabito, il quale,
verbalizzando per corpo e bocca di Claudio Santamaria, vuole raccontare una
vicenda di corruzione descrivendo le pieghe malate di questo sistema di cose.
Il film, secondo capitolo del giovane cineasta che anni fa esordì
con “Cecilia”, è stato presentato per il Baff nella serata di venerdì 4 aprile al cinema Lux di Busto Arsizio con
la presenza in fase introduttiva dello stesso Morabito e del produttore, il
conosciuto Amedeo Pagani, il quale ha contribuito alla stesura della
sceneggiatura e offre un breve cammeo. I due davanti al numerosissimo pubblico
stipato in un cinema stipato in ogni ordine di posto, sono sembrati molto
seriamente coinvolti nel progetto e appassionati alla causa.
La stessa “durezza” mostrata sul palco emerge a rotta di
collo in una pellicola aspra, che non intende strizzare l’occhio allo
spettatore e che, se da un lato prende le distanze da certo cinema militante di
qualche decennio fa, offre l’indubbio merito di informare su un universo
appunto poco conosciuto alla gente. Molti utenti infatti non si pongono il
problema, ma non occorre aver conseguito una laurea in medicina per rendersi
conto del mastodontico profluvio di farmaci e del loro moltiplicarsi in marche
e modelli anche per sanare la stessa patologia.
Santamaria è dunque Bruno, informatore farmaceutico che
opera in una nota azienda diretta da personaggi senza scrupoli che delegano a
Giorgia (giocata da Isabella Ferrari), capo squadra cinica e spietata, la
rincorsa impetuosa al profitto a tutti i costi anche tagliando le teste dei
dipendenti. Il nostro si dibatte pertanto fra uno studio medico e l’altro
cercando di convincere i vari dottori a prendere quel farmaco e prescriverlo il
più possibile. In ogni occasione porta con sé regalie, benefit e vantaggi da
attribuire agli stessi medici (il comparaggio, appunto).
Santamaria si muove con il passo sicuro e arrembante dei
grandi attori in un sottomondo purulento alla radice poiché la necrosi morale
ha perforato la cultura; l’abiezione di informatori e dottori diventa dunque
pratica quotidiana consolidata e si consumano battute ciniche ai danni delle
persone, menefreghismi inaccettabili.
Proprio nel non voler essere una trattazione documentale di
un fenomeno ma nel voler narrare le vicende di un uomo il film trova un
elemento ostativo. La parte umana del protagonista viene soltanto accennata
quasi che lui stesso rappresenti un soldatino lanciato verso la difesa di una
causa più generale. Si parla sì del rapporto di Bruno con la fidanzata, lo si
vede inghiottire varie pastiglie ma non veniamo a sapere molto altro di lui. Un
minutaggio leggermente più lungo e un’attenzione più “sensibile” verso la sua
vicenda umana a parere di chi scrive non avrebbe guastato.
Al contempo Morabito trova proprio in questa “spietatezza
drammaturgica” la sua virtù nell’incedere come un carro armato verso l’obbiettivo.
La fotografia oscura delinea la cinerea cornice in cui questi automi odierni, pervasi
fino al midollo dell’istinto di lucrare e spogliati di unicità e sentimenti, agiscono
tremebondi nell’ombra del sistema valoriale e societario.
E i critici che parlano bene direbbero che questo è un film “necessario”,
quanto mai giusto anche in ragione del mondo lavorativo che oggi ragazzi e meno
ragazzi si ritrovano a cavalcare. Santamaria infatti, per stare a galla in un’azienda
competitiva e anfetaminizzata, si macchia di crimini morali e materiali. Che
cosa si fa oggi pur di lavorare? In fondo ci provava gusto a fare così?
In tal senso “Il venditore di medicine” risulta un film
onesto e vissuto, bello e a tratti molto bello nel prendere per la collottola
lo spettatore e sbattergli in piena faccia una situazione. Situazione tra l’altro
da cui nessuno si può permettere il lusso di tirarsi fuori poiché il ricorso
alla farmacologia è pratica che tanto o poco si fa necessaria nell’arco di ogni
vita. La spontaneità delle recitazioni, non solo del bravissimo Santamaria
(presente nel 95% delle scene) e della Ferrari ma anche degli attori
collaterali, va appunto in questa direzione: fidelizzare lo spettatore verso
una causa eminentemente “umana” su cui è stato fatto troppo silenzio.
Cammeo di Marco Travaglio nei (credibili) panni di Malinverni, un "pesce grosso" della medicina.
Da sottolineare per chi non lo sapesse che il comparaggio è
previsto reato nel nostro ordinamento giuridico.