AMOUR
Regia: Michael Haneke
Anno: 2012
Genere: drammatico
Durata: 127'
Voto: 9
Trama:
Una coppia di anziani, Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emanuelle Riva), vivono in un piccolo appartamento seguendo una consolidata quotidianità. Ma la donna viene operata a causa di una paralisi al lato sinistro del corpo; georges dovrà spendere tutto sé stesso per accudirla e sovvertire la sua intera esistenza.
Recensione:
Ancora una volta Michael Haneke si
dimostra il migliore regista
del mondo per un certo genere di film,
quelli che tolgono tutto il toglibile e riescono a suscitare
un'emozione, un ragionamento e un'idea con un impianto scenografico e
sceneggiativo il più disadorno possibile.
«Amour», la sua
ultima fatica, incentrata sulle vicende di due anziani sposati uno
dei quali, la moglie/donna, viene colta da paralisi nella parte
destra del corpo. La situazione sanitaria peggiora sempre più, la
signora diventa via via irriconoscibile e il marito è costretto a
esercitare "amore" attraverso la care, la cura della
patologia.
A mio avviso due ore abbondanti sono troppe, io avrei
sforbiciato un quarto d'ora asciugando qualcosina nella prima parte.
Questo mi pare l'unico (piccolo, anzi piccolissimo) neo di un'opera
destinata non solo a fare breccia nel cuore degli aficionados del
regista austriaco, ma anche in tutti coloro che con spiccata
senbilità si accostano a certi fenomeni emozionali della
vita.
Haneke con una colata di cemento dura come il ferro
imbastisce una struttura narrativa autoriale e dotata di maestosa
semplicità. Tutto è semplice e misurato qui: l'esiguo numero degli
attori, le recitazioni (straordinarie quelle dei protagonisti
Trintignant e Riva), l'arredamento della spoglia abitazione, i toni
sommessi dei dialoghi e i passaggi della vicenda (pochi ma incisivi).
Niente di nuovo per Hanake, il quale non è mai stato strillone di
corte, ma sempre entomologo (come ha detto bene Guido) in punta di
piedi nelle storie da trattare. Il ritmo allora si fa assolutamente
funzionale a catturare lo spettatore avviluppandolo nella sofferenza
e nel ragionamento rispetto ai vari significati che emergono. La
seconda parte l'ho trovata stupenda, a mio avviso nessun altro
regista avrebbe potuto calibrarla con quel livello qualitativo; la
prima, sebbene di presentazione, mi è parsa troppo lunga e, come ho
già detto, l'avrei leggermente ridotta.
Ma sono bazzecole.
Come
non gioire nell'intelletto per vari feedback cui ci costringe/invita
questo chirurgo dell'anima che risponde al nome di Haneke:
1) il
senso dell'amore: laddove anche la malattia scava nella
carne, laddove le cose cambiano e l'età non consente più lo slancio
del buon tempo antico, l'aiuto parentale si colora d'amore. Il VERO
amore allora è quello astratto, platonico; troppo facile amare
quando dopo si fa l'amore, quando in qualche modo si riceve qualcosa
in cambio.
2) l'età anziana: la terza età viene
mostrata pagina dopo pagina quasi fosse un libro dallo stile sobrio e
rispettoso; la malattia sembra un ospite indesiderato ma
ineluttabile, nessuna rabbia nei suoi confronti e la delicatezza di
cui il regista attornia il letto di dolore ha la stessa sacralità di
un confessionale.
3) amare può anche voler dire
accettare un desiderio di morte da parte di chi sta male.
Un aspetto che a me ha colpito moltissimo è l'incapacità delle persone esterne al dolore, segnatamente i giovani, di entrare in quel dolore. Quasi che soltanto il sofferente possa capire davvero cosa vuol dire essere menomati, fottuti dal male fisico e morale. Il giovane ex allievo di pianoforte (il cui cd la Riva chiede risolutamente di spegnerlo), la figlia (giocata da Isabelle Huppert)... Dimostrano vicinanza alla coppia di anziani, ma sembrano pesci fuor d'acqua e pare entrino sempre a gamba tesa (non volendo fare male ovviamente) nella casa del dolore.
Questa componente l'ho davvero respirata per tutto il film.
Magnifico il finale, che si presta a più di un'interpretazione.
Un aspetto che a me ha colpito moltissimo è l'incapacità delle persone esterne al dolore, segnatamente i giovani, di entrare in quel dolore. Quasi che soltanto il sofferente possa capire davvero cosa vuol dire essere menomati, fottuti dal male fisico e morale. Il giovane ex allievo di pianoforte (il cui cd la Riva chiede risolutamente di spegnerlo), la figlia (giocata da Isabelle Huppert)... Dimostrano vicinanza alla coppia di anziani, ma sembrano pesci fuor d'acqua e pare entrino sempre a gamba tesa (non volendo fare male ovviamente) nella casa del dolore.
Questa componente l'ho davvero respirata per tutto il film.
Magnifico il finale, che si presta a più di un'interpretazione.
Questo è un film che verrà ricordato.
Sono troppi i sottotesti di grande valore artistico e soprattutto
umano che si porta appresso. Ed è troppo pazzesco il modo in cui
Haneke tratta il tutto. Quattro attori quattro di cui due
protagonisti, zero sovrastrutture e guarda che cosa ne è venuto
fuori.